Le ridicole vanterie del governo
Italia a picco, l’Istat fotografa il crollo economico del Paese e smentisce Meloni
-3,1% a dicembre, -7,1 rispetto a un anno fa, Pil in calo costante da 23 mesi. Giorgia balla sulle rovine di un Paese completamente deindustrializzato dove l’unico primato è quello del lavoro povero
Politica - di Cesare Damiano

Racconta Walter Isaacson, nella sua biografia di Steve Jobs, che una delle principali attitudini del rivoluzionario demiurgo della Apple fosse quella di manipolare la realtà per condurre i suoi collaboratori dove voleva. In una discussione con un collega, di fronte alla richiesta di raggiungere un obiettivo impossibile, un progettista del software Apple, spiega: “per descrivere la situazione, posso solo usare un’espressione di Star Trek: ‘campo di distorsione della realtà’ […] Steve ha un campo di distorsione della realtà”.
Sviluppando il concetto l’ingegnere prosegue: “In sua presenza la realtà è malleabile: lui è in grado di convincere chiunque di qualunque cosa. Appena esce dalla stanza, il campo svanisce, ma quello rende difficile fare programmi realistici”. Ci sembra che la cifra comunicativa di questo Governo sia qualcosa di assimilabile. Il dubbio è che questo esecutivo applichi un campo di distorsione della realtà non con la determinazione di conseguire degli obiettivi determinati, ma nella speranza – una sorta di propensione al “pensiero magico” – che essi si manifestino spontaneamente. Ma tale distorsione è inficiata dall’incontrovertibile peso dei dati che la realtà stessa produce. Il refrain del governo è, da tempo, “stiamo facendo meglio degli altri”. Si tratta di un approccio basato su un uso parziale dei dati. Pochi giorni fa il ministro delle Imprese e dello Sviluppo economico sosteneva esattamente che “la produzione ha ripreso a crescere a dicembre e l’Italia sta facendo meglio di altri Paesi europei”.
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Ancora, consideriamo l’uso dei dati sull’occupazione al quale abbiamo assistito: numeri record, oltre 24 milioni di occupati. Ma che, se analizzati nel dettaglio, nella loro composizione, raccontano, come vedremo più avanti, una storia ben diversa. Mercoledì, l’Istat ci ha mostrato che la situazione della produzione industriale è semplicemente catastrofica. Perché, proprio in dicembre, la produzione è franata: -3,1 per cento rispetto a novembre. E, su base tendenziale, il numero si fa impressionante: -7,1% rispetto a un anno fa. È il risultato di 23 mesi consecutivi di calo della produzione. A conti fatti la produzione industriale italiana ha perso il 5,5% in due anni. E, in ogni caso, l’indice della produzione industriale – ossia, l’indicatore che misura la variazione nel tempo del volume della produzione dell’industria – segna, in novembre, il 94,6 per l’Italia e il 98,3 come media dell’Unione europea. Non è affatto vero che facciamo meglio degli altri.
Uniamo i puntini inserendo nel quadro i numeri della Cassa integrazione nel 2024 elaborati dal nostro Centro Studi di Lavoro&Welfare. Lo scorso anno, la richiesta di ore di questo ammortizzatore sociale cresce di oltre il 20% rispetto al 2023, superando i 500 milioni di ore autorizzate. Nell’anno si registrano 7 mesi nei quali la richiesta supera i 40 milioni di ore. In dicembre le ore autorizzate sono più di 41 milioni; la domanda è diminuita dell’8,92% rispetto al mese di novembre 2024, mentre prosegue la crescita tendenziale che raggiunge quasi il 42% in più rispetto a dicembre del 2023. Nel complesso, oltre 63 milioni di giornate lavorative andate perse. Il settore che, nel corso dell’anno passato, ha richiesto più ore è quello Meccanico: oltre 222 milioni (+40,60%). Quello con il maggior incremento percentuale di richiesta è Pelli e Cuoio, con oltre 36 milioni di ore (+128,20%). Parliamo di due settori immersi nella crisi dell’automotive, il primo direttamente, il secondo nella filiera dell’indotto.
Andiamo avanti: la produzione industriale crolla progressivamente, la richiesta di ammortizzatori sociali cresce. E, allora, perché cresce l’occupazione? Il Report sull’andamento del mercato del lavoro, sempre del Centro Studi di Lavoro&Welfare, basato su dati aggiornati a settembre del 2024, ci dà un’indicazione precisa. Se si osserva, anziché il dato assoluto, la dinamica delle ore lavorate per macro-settori, emerge uno spostamento strutturale dell’economia italiana verso il terziario a fronte della regressione del manifatturiero. Infatti, se le ore lavorate nel terziario, nel secondo trimestre 2024, sono superiori del 6% al livello del secondo trimestre del 2008, la contrazione nell’industria, rispetto a quello stesso anno, è di circa il 19%. Questi dati ci dicono qualcosa di rilevante in merito alla qualità dell’occupazione, al di là della sua dimensione quantitativa: quelle del terziario sono le attività nelle quali si annida maggiormente, oltre al nero, il lavoro a tempo, lo stagionale, il part-time, che è talvolta finto, e le partite Iva che non sono realmente tali. La conseguenza, ovvia, è una diffusione del sotto-salario. La crescita della stabilità del lavoro è, perciò, in parte più apparente che concreta.
Certo, la crisi della nostra manifattura ha una forte componente esogena: si pensi, tornando all’automotive, al disastro complessivo di questo settore in tutta Europa. Abbiamo visto eventi inusitati. Come la Volkswagen che annuncia, per la prima volta nella sua storia, l’intenzione – poi, scongiurata – di chiudere impianti in Germania. Ma la desertificazione industriale nel nostro Paese va ben oltre ed è il risultato di anni di assenza di una qualunque iniziativa, perfino di qualsiasi ragionamento, di politica industriale. Ed ecco che vediamo interi distretti industriali annichiliti. Facciamo l’esempio del territorio di Fabriano, nelle Marche. Ne abbiamo già parlato nei mesi scorsi su questo giornale, anticipando la situazione di crisi che oggi è esplosa. Fabriano è stato un polo produttivo del cosiddetto “bianco”, cioè quel settore dell’industria metalmeccanica che produce elettrodomestici, legato a marchi storici che tutti abbiamo ben fissati nella mente come Merloni e Indesit. Ma il nome di quella Provincia è anche sinonimo di una produzione di tutt’altro tipo: la carta, della quale Fabriano è praticamente sinonimo. Ed ecco che due crisi industriali, che riguardano due settori così diversi, investono quel territorio.
Da una parte la crisi della Beko Europe – proprietà al 75 per cento della turca Arçelik e al 25 per cento dell’americana Whirlpool – che colpisce, oltre Fabriano, anche altri stabilimenti in giro per il nostro Paese. Dall’altra parte, abbiamo assistito alla fine della produzione di carta per fotocopie negli stabilimenti della Giano, società del Gruppo Fedrigoni di Fabriano (e Vetralla, nel Lazio). 174 dipendenti dei due siti sono stati posti in cassa integrazione straordinaria per un anno. Per loro, perlomeno, l’azienda proporrà dei ricollocamenti. Ma gettando un occhio in giro per il mondo, scopriamo che i maggiori produttori di carta per ufficio si trovano oggi – come dubitarne – negli Stati Uniti e in Cina. Insomma, Un attivissimo polo come quello di Fabriano vede una forte deindustrializzazione. Il medesimo rischio che corrono città come Torino, legate alla produzione automobilistica. Ed è evidente come la natura di queste crisi, non sia analoga se non per il fattore unificante e costante che indicavamo sopra: l’assenza di qualsiasi forma di politica industriale.
Uniti i puntini, i dati ci parlano di una crisi strutturale del nostro tessuto produttivo che è divenuta insostenibile. Non vi è alcuno spazio per fare giochi con la realtà. Mai come oggi, è necessario che le opposizioni incalzino la maggioranza perché la politica industriale – con tutti i suoi legami con le catene del valore globali e la necessaria contestualizzazione nell’alveo della Ue – sia al centro del dibattito politico. E, altrettanto, il Governo deve smetterla di cercare di applicare un campo di distorsione alla realtà. Le cose non si aggiustano con la propaganda. Non stiamo andando per nulla bene. È ora di applicarsi con serietà a questa situazione.