Viaggio nel pianeta sinistra
Berlinguer e quel patto con la DC che poteva cambiare tutto: ma la morte di Moro spazzò via il sogno
Editoriali - di Paolo Franchi
La sera del 21 giugno 1976 si assiepò sotto le Botteghe Oscure, per festeggiare il più grande successo elettorale del Pci, una folla mai vista, quasi una rappresentazione fisica del 34 e rotti per cento che aveva votato comunista: vecchi militanti e allegre famigliole coi bambini, materialisti storici (e talvolta anche dialettici, alla faccia di chi erroneamente pensava che l’unico vero merito di Federico Engels fosse quello di aver mantenuto Carlo Marx) e cattolici praticanti, quadri di partito da una vita “sdraiati sulla linea” e gruppettari che avevano votato comunista seguendo l’indicazione di Lotta Continua, femministe non ancora diventate “storiche” e compagne dei quartieri popolari e delle borgate tuttora ispirate al modello dell’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, borghesi (piccoli, medi, e pure grandi) e proletari (in molti casi, sottoproletari).
Verso le dieci Berlinguer parlò a questa folla osannante: grazie compagne e compagni, la nostra avanzata è straordinaria in tutto il Paese, festeggiamola e, da domani, ancora al lavoro e alla lotta, perché nuovi e difficili compiti ci attendono. Bene, benissimo, nessuno si aspettava, nell’ora della grande festa, riflessioni particolarmente approfondite su un voto che pure, di lì a poco, a molti dirigenti del Pci (ricordo per tutti Gerardo Chiaromonte, uomo di finissima intelligenza e di cosmico pessimismo) sarebbe parso paradossalmente eccessivo, perché rovesciava sul partito un sovraccarico di domande spesso contraddittorie a dir poco.
Nanni Moretti, nel Sol dell’Avvenire, indica in chiave onirica nel 1956 la grande occasione persa dal Pci: se Togliatti, invece di schierarsi con l’Unione Sovietica, avesse preso le parti degli insorti di Budapest, la nostra storia e pure le nostre storie sarebbero andate molto diversamente. Sicuramente è così, ma sul piano storico e politico una simile scelta era, per il Migliore e per la grande maggioranza del partito di allora letteralmente impensabile: se le nostre nonne avessero avuto le ruote, anche il traffico urbano sarebbe oggi assai diverso.
Vent’anni dopo, però, le cose stavano in tutt’altro modo. Non solo perché i comunisti italiani, soprattutto a partire dal “grave dissenso” e dalla “riprovazione” manifestati nel 1968 a proposito dell’invasione della Cecoslovacchia, avevano fatto significativi passi avanti sulla strada della revisione e dell’ autonomia dall’Unione Sovietica, e Berlinguer era giunto a dichiarare di sentirsi più tranquillo sotto l’ombrello della Nato. Ma anche, e soprattutto, perché il voto del 20 e del 21 giugno, per eterogeneo che fosse, una evidenza la esprimeva: un terzo degli elettori italiani aveva messo una croce sul simbolo comunista (“il primo, in alto, a sinistra”, si ricordava fino all’ultimo con orgoglio agli elettori più anziani e/o meno acculturati) perché vedeva nel Pci “di lotta e di governo” la forza principale di una possibile alternativa, o meglio di una successione democratica alla Dc, che alla guida del governo ci stava ininterrottamente da trent’anni. Allora mi chiedo, anch’io in chiave onirica, si parva licet alla Moretti, quale altro corso avrebbe preso la nostra storia se Berlinguer, nella tarda serata di quel 21 di giugno, avesse semplicemente detto: “Abbiamo vinto in due, il Pci e la Dc, e questo impone a noi e a loro di trovare un qualche accordo per dare un governo al Paese. Ma il voto al Pci esprime una domanda di cambiamento politico e sociale, in una parola di alternativa, fortissima. Per non deluderla, per non restare in una situazione di stallo, dobbiamo cambiare anche noi”.
Ma Berlinguer queste parole non le disse. Di un revisionismo comunista (teorico, culturale, politico, organizzativo e, perché no, anche storico) che avrebbe dato linfa vitale alla costruzione, in forme originali, di quella presenza egemone di un partito socialista che in Italia, caso unico nel panorama europeo, non è mai esistita, quasi non ci fu traccia: anzi, cominciarono a manifestarsi da subito i segnali della guerra civile a sinistra destinata a concludersi, di lì a non troppi anni, con la comune rovina delle parti in lotta. Finita con l’assassinio di Aldo Moro la stagione dell’unità nazionale, il Pci – quello di Berlinguer, e ancora di più quello dei suoi successori – si ritrovò privo di una prospettiva politica. Ed entrò in agonia, una lunga agonia, ben prima del 1989, sul finire del quale Achille Occhetto, per evitare che quanto restava del suo esercito restasse intrappolato sotto le macerie del Muro di Berlino, promosse non una revisione, ma (per paradosso inspirandosi alla tradizione della Terza Internazionale) una svolta, assai più radicale di quella di Salerno. O meglio, disse lui (ispirandosi inconsapevolmente al medesimo slogan di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980), un Nuovo Inizio.
Probabilmente non poteva fare altrimenti, il “fattore tempo” di cui parlava Giorgio Amendola giocava contro di lui. Ma lo stile, politicista e scanzonato, fu quello dei parlamentini universitari seppelliti dal Sessantotto, e segnatamente dell’Unione goliardica italiana, di cui era stato (come Marco Pannella, ma pure Bettino Craxi, Gianni De Michelis e, per parte comunista, Claudio Petruccioli) un esponente importante. La storia, la tradizione, la cultura politica, il modello di partito del Pci, mai sottoposti a una seria revisione che mettesse in chiaro ciò che si dava per morto e sepolto e ciò che invece si considerava vivo e vitale, furono accantonati, o, per essere più precisi, sempre più vigorosamente sospinti sotto il tappeto; e ogni richiamo a quello che un tempo si chiamava il movimento operaio e socialista soppresso anche nel nome del nuovo partito, il Pds (co – erede, assieme a Rifondazione comunista, del vecchio Pci), non casualmente definito, prima che nel 1991, a Rimini, prendesse formalmente corpo, “la Cosa”.
Tutto questo ha contribuito non poco a far sì che un’eredità difficile, ma importantissima, come quella del comunismo italiano sia stata letteralmente dissolta, come se quel “grumo di vissuto” (la definizione è di Pietro Ingrao) di intere generazioni non avesse niente da dire alle generazioni successive, e non ci fosse nulla da trasmettere, se non orrori e tristezze su cui era meglio far calare l’oblio. Più tardi, mentre i post comunisti, assieme a vari altri post, in primis democristiani, si mettevano senza fortuna in caccia di una indefinibile idea politica “nuova” e del partito, anch’esso “novissimo”, in grado di incarnarla, del Pci e di ciò che esso è stato si sono occupati pressoché solo gli anticomunisti, nel migliore dei casi per farne la caricatura, nel peggiore per rappresentare la sua storia come una tragedia dai risvolti criminali ed eversivi, quanto meno alla pari, se non addirittura peggiore, di quella fascista: così che da tempo non solo sui morti di Reggio Emilia del luglio 1960, ma pure sulle migliaia e migliaia di partigiani e partigiane comuniste caduti nella Resistenza si fa pendere (magari chiamando a sostegno l’incolpevole Norberto Bobbio) il sospetto che non siano morti per la libertà e la democrazia, ma per imporre una dittatura di partito.
Trentadue anni, e trentadue anni come questi, sono molti, moltissimi. Sicuramente troppi per riesumare il Pci: ma questo non intende farlo (spero) nessuno. Forse non troppi, invece, per rielaborare la sua vicenda storica, cercando di rintracciarvi, tra tanti peccati per opere e per omissioni, tanti colpevoli ritardi, tante contraddizioni irrisolte, anche un filo rosso da tirare per contribuire alla fioritura di una forza politica popolare e di sinistra per fare l’opposizione che merita al governo più a destra della storia della Repubblica. “Un giornale è un giornale è un giornale” si diceva, parafrasando Gertrude Stein, all’Unità di una volta, per rivendicare un minimo di autonomia dal partito. “Un giornale è un giornale è un giornale”, si potrebbe dire anche all’Unità appena tornata, tanto più perché il partitone da cui essere autonomi non c’è più da un pezzo e, semmai, bisogna vedere se e come dare una mano a costruirne un altro, si tratti di un nuovo Pd o no non è qui il caso di discutere. Ditelo pure, se volete, ci mancherebbe. Ma senza dimenticare che quella vecchia storia è in una certa misura anche la vostra, per il nome che portate e non solo: chi non ha un passato, si tratti di un giornale o di un partito, non ha nemmeno un futuro. Abbiatevi intanto gli auguri di cuore di uno che un comunista italiano lo è stato per un tratto importante della sua vita, e resta convinto, sulla scia di Arthur Koestler, che la cosa più insopportabile nel fare dell’anticomunismo sia la compagnia degli anticomunisti.
(2. FINE – La prima parte è stata pubblicata sull’Unità di ieri 17 maggio).