Quando scrisse questo articolo Sibilla Aleramo, nome d’arte di Rina Faccio, aveva settant’anni, tante vite alle spalle, una esistenza da romanzo vissuta cercando di incarnare anzitempo l’indipendenza femminile. Da pochi mesi si era iscritta al Pci, il partito nuovo voluto da Togliatti, quella comunità larga, nazionalpopolare, che con toni lirici Aleramo descrive nel suo testo.
Nata nel 1876 ad Alessandria, padre ingegnere di idee mazziniane, ateo e scientista, madre depressa e suicidaria, iniziò il suo peregrinaggio esistenziale seguendo gli spostamenti paterni, prima a Vercelli, poi a Milano, infine a Civitanova Marche. Qui, lasciata la scuola entrò a lavorare come contabile nell’azienda diretta dal padre. Non ancora sedicenne venne abusata da un dipendente dell’azienda poi costretto, come imponeva la legge dell’epoca, al matrimonio riparatore. Iniziò per lei una vita grigia, in un ambiente provinciale soffocante, accanto ad un uomo che non amava e che nemmeno la nascita del figlio riuscì a modificare. Dopo una profonda depressione e un tentativo di suicidio sulle orme materne, trovò riscatto esistenziale nell’impegno letterario e per l’emancipazione femminile. Iniziò a scrivere su alcune riviste legate agli ambienti del socialismo umanitario e femminista (Vita moderna), entrò in contatto con intellettuali riformisti e del movimento positivista, tra questi Cesare Lombroso, Ada Negri, Maria Montessori. Gli venne affidata la direzione del settimanale socialista, L’Italia femminile.
Nel 1902, a ventisei anni, decise di lasciare marito e figlio per trasferirsi a Roma e legarsi a Giovanni Cena, direttore della rivista Nuova Antologia che la spinse a scrivere il suo primo e più famoso romanzo autobiografico, Una donna, pubblicato nel 1906 con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo. Testo nel quale racconta la violenza subita dal futuro marito, l’abbandono della famiglia per seguire la vocazione letteraria e affrontare una vita da donna indipendente e autonoma contro gli stereotipi della famiglia tradizionale, la condizione femminile sottomessa, i codici sociali e morali repressivi. I temi per nulla scontati del suo primo romanzo, considerati troppo di rottura, non trovarono immediata accoglienza nella editoria, sia Baldini e Castoldi che Treves rifiutarono di pubblicarlo.
Questa seconda esistenza di Sibilla Aleramo è segnata da uno sfrontato anticonformismo, volta a costruire il proprio mito anarchico e libertario di «amante indomita». Amo dunque sono è il titolo di un suo romanzo epistolare del 1927. «Pellegrina d’amore», come la definì Benedetto Croce, intrecciò numerose relazioni con artisti e intellettuali dell’epoca: Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Umberto Boccioni. Con il poeta Dino Campana ebbe una relazione tumultuosa, passionale e violenta, cessata dopo il ricovero psichiatrico di quest’ultimo. Ebbe anche relazioni lesbiche, la più nota delle quali è con la ravennate Lina Poletti. Frequentò Evola e Quasimodo, conobbe a Parigi D’Annunzio, Apollinaire e Colette, il suo alter ego francese. La sua libertà non piaceva a tutti, Giuseppe Prezzolini la definì, «lavatoio sessuale della cultura italiana».
Dopo una iniziale opposizione al fascismo, nel 1925 aveva firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti scritto da Giovanni Gentile, ridotta all’indigenza nel 1929 incontrò Benito Mussolini, da lei definito un «taumaturgo gigantesco», che la fece entrare nell’Accademia d’Italia, posizione che le consentiva di ricevere una pensione. Nel 1933 si iscrisse anche all’Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate. Nel 1943 tuttavia si rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò.
Il 3 gennaio del 1946 si iscrisse al partito comunista, terza fase della sua esistenza, dove conobbe Palmiro Togliatti che suggerì a Giangiacomo Feltrinelli di acquistare il suo diario, oltre cinquemila cartelle, curato dall’italianista Anna Folli e pubblicato nel 2000 dalla fondazione Feltrinelli.
Questo articolo di Sibilla Aleramo è apparso sull’Unità del 19 settembre 1946.
Vi parla una compagna, una che ha già a lungo vissuto, che è quasi al termine del cammino della sua vita. E che pure, stando di fronte a voi, si sente stranamente giovane, miracolosamente rinnovata perché questo titolo di compagna, lei lo ha da poco tempo, da men che un anno, e da allora è come ne fosse penetrata in un’altra zona di mondo, come ne avesse acquistata un’altra famiglia, grande, sempre più grande, di cui incontra ogni giorno nuovi componenti, tutti cari, che le rivolgono un sorriso aperto, così franco. Vengono da diversi strati della società, operai e intellettuali, piccoli impiegati borghesi, artisti bohémiens, e donne e ragazze e madri di numerosi bambini e perfino nonne, più anziane ancora di me che vi parlo. Ebbene, per questo fatto che abbiamo tutti aderito alla medesima idea, alla stesse fede, e che ci si da subito del tu come se ci si fosse conosciuti da sempre, noi formiamo, malgrado tutte le diversità, qualcosa di compatto, di straordinariamente omogeneo, una famiglia dicevo, ma anche più che una famiglia, perché non è limitata a una cerchia prefissa e tende per propria natura ad estendersi all’infinito.
Non so, ma credo che noi tutti proviamo questa sensazione, la quale ci fa tornare sulle labbra quel sorriso di contentezza quando ci si saluta, anche se individualmente abbiamo le nostre pene, la nostra tristezza. L’umanità in noi che si afferma in una maniera che prima non s’era mai verificata dinanzi alla nostra coscienza. Tra il falegname e lo scienziato, tra il bracciante e il poeta, se si presentano col comune denominatore di compagno, si stabilisce spontaneamente una parità assoluta. Parità che direi di sostanza spirituale, se questa parola non rischiasse di creare confusione. Questi uomini, queste donne (la casalinga e l’attrice, l’insegnante la modista e la contadina, compagne), si attestano uguali per l’idealità di quel che significa l’appartenenza allo stesso partito: un partito, il nostro, non soltanto politico come tutti gli altri, ma che è qualcosa di molto vasto, che include in sé l’aspirazione a migliorare, a trasformare, a rendere felice l’intero mondo… Non è forse questa aspirazione quella che silenziosamente si specchia nello sguardo del compagno o della compagna quando ci stringiamo la mano? Identica sotto tutte le latitudini, tra le nevi e le sabbie o le verdi colline.
Di là anche dalla religione professata, cattolica o protestante o ebraica o buddista, per tutto il mondo i comunisti portano nel proprio cuore questa speranza umana di totale redenzione. Redenzione in terra non soltanto dalla schiavitù economica della maggioranza del popolo, ma da ogni forma di abiezione e di male, da ogni miseria morale, da ogni viltà, da ogni egoismo.
Redenzione dall’odio, per tutta la terra non soltanto parole, e ciascuno di noi, compagni, compagne, lo sa. È per questo gli traluce il viso ad ogni nostro incontro, magari per un attimo ciascuno di noi sente pulsare in petto allora la grande certezza che è li dentro, profonda. Così pura, così staccata da ogni nostra personale continenza, così librata, la grande certezza, al di sopra del nostro presente.
Ho nominato un momento fa l’egoismo. Ecco, non c’è ombra di egoismo in questo che sentiamo e che crediamo e che ci corregge: vi splende anzi un disinteresse assoluto, tanto più sorprendente e commovente in quanto siamo pur tutti doloranti per uno o un altro motivo, tutti premuti da sofferenze che non ci illudiamo possano tanto presto finire. Ma queste non ci importano in quell’istante, son come abolite, quasi veramente ce ne fossimo liberati, a tal punto è vivo in noi l’avvenire quando guardiamo negli occhi il compagno o la compagna di fede. E non importa se subito dopo ci si imbatte in gente che ci deride o ci commisera o ci vitupera o più spesso ci teme, non importa. Abbiamo avuto la millesima prova un attimo prima che non siamo soli, sappiamo di essere molti, molti sparsi ovunque. Sappiamo che già in alcuni punti del globo si sta realizzando la giustizia e la bontà, si sta rendendo il lavoro non più un castigo ma una cosa nobile come un’opera d’arte, e ci sentiamo fieri e insieme riconoscenti verso la sorte che ci fa pionieri in patria, verso il nostro immane dovere di preparare, ognuno quanto e come può, il tempo in cui l’umanità tutta intera sarà finalmente degna di vivere sopra la terra.