Così bello così corrotto così conteso, si chiamava il film di Sergio Gobbi che Berger interpretò nel ’73, reduce dal primo grande successo con Visconti, La caduta degli dei (’69) e da Il giardino dei Finzi Contini di De Sica. Bello, corrotto e conteso. Esattamente come era lui e come gli piaceva essere. «Mi sono drogato, ho bevuto quanto volevo, ho sperperato tutti i soldi che ho guadagnato» ripeteva con convinzione e una punta di orgoglio.
E, poi, soprattutto, in un periodo in cui essere omosessuali faceva scandalo e figuriamoci rivelarsi bisessuali, dichiarava: «Vado a letto con uomini e donne, e sono il primo che ha il coraggio di dirlo apertamente». Non senza qualche inciampo burocratico e pratico, questa bisessualità. A cinquant’anni Helmut si sposa con la scrittrice e regista Francesca Guidato, i due litigano come pazzi e puntualmente le loro gesta finiscono sui giornali, ma restano più o meno sempre in contatto, quindi, quando più di vent’anni dopo rimbalza la notizia che si è di nuovo unito in matrimonio, questa volta con l’amico Florian Weiss, subito la moglie lo denuncia per bigamia. Non c’è stato in realtà alcun matrimonio, solo una sorta di rituale d’amore a suggellare l’inizio di un rapporto che è durato il tempo di una settimana. Il povero Wess ne ricava una pubblicità tutt’altro che lusinghiera, perché i media lo etichettano come “ragazzo botox”.
Ai limiti del grottesco, poi, certe scene che potevano avere come protagonista solo un uomo super adorato e spesso poco lucido, come quella che raccontava il direttore di Eva Express: a casa di Marisa Mell, l’attrice che grida a Helmut «Hai fatto l’amore con me tutta la notte, imbecille!», e lui che a sua volta le urla a volume doppio «Tu sei pazza da ricovero, a te non ti toccherei mai con un dito!».
Nato a Bad Ischl, in Austria, il 29 maggio 1944, Berger viene in Italia giovanissimo per frequentare i corsi per stranieri di Perugia, poi si sposta a Roma dove lavora come modello e assistente alla regia, prima di diventare attore. L’incontro con Luchino Visconti è folgorante per tutti e due (resteranno insieme fino alla morte del regista), sia dal punto di vista artistico che sentimentale. Una relazione burrascosa, con Berger gelosissimo di Alain Delon («Che tanto non è mai neppure stato con lui!» ci teneva a sottolineare nelle interviste), imprevedibile, incontrollabile, e Visconti per una volta nella sua vita paziente e comprensivo che sa magistralmente sfruttarne il talento, quel talento che farà dire a Andy Warhol prima e a Quentin Tarantino poi «Helmut Berger è uno dei più grandi attori viventi» (cosa su cui non molti sono d’accordo, nonostante un David di Donatello).
Visconti ne fa una vera star, prima con La caduta degli dei, poi con Ludwig (1973), il re pazzo in cui Berger si identifica perfettamente, forse anche fuori dal set, e infine con Gruppo di famiglia in un interno (1974). Nessun altro film ripeterà quei successi, anche se ce ne saranno un’altra quarantina, anche con registi importanti come Tinto Brass o Francis Ford Coppola (Il padrino III, 1990). Ma la morte di Visconti, nel ’76, ha lasciato Helmut devastato, l’ombra di se stesso. «Sono la sua vedova», ha detto al funerale. Da quel momento, non ha più un punto di riferimento.
Gli ultimi film non li gira in Italia. Perché è furioso con l’intero Paese, con quei ladri di produttori che non hanno pagato i contributi e l’hanno ridotto a vivere con una pensione di 200 euro, con la famiglia di Visconti che secondo lui ha fatto sparire il testamento in cui era designato tra gli eredi, e con tutti quelli che non si sono mai schierati dalla sua parte. Ma anche, lucida, l’ammissione: non sono io che non voglio più lavorare in Italia, è il cinema italiano che non mi vuole più. A chi gli obietta che forse sono state le sue intemperanze a spaventare i registi, Helmut risponde «Non me ne importa niente, io sono così e basta», con quell’aria beffarda che ha sempre avuto, ma che col passare degli anni è diventata sempre più simile a un ghigno.
Nel 2010, ospite delle trasmissione My Swinging Sixties della seconda rete pubblica tedesca Zdf, la traduzione pratica dell’ «io sono così» fa saltare più volte sulla sedia il pur compassato conduttore Thomas Gottschalk. «Per stare seduto qui sto aspettando da due ore di masturbarmi», dice Helmut in diretta, ubriaco. Almeno ne è valsa la pena?, cerca di sdrammatizzare Gottschalk. No!, grida Helmut. E dopo un po’ eccolo ad allungare una mano sulla patta dei pantaloni dell’ex campione di pattinaggio sul ghiaccio Hans-Jurgen Baumler. Al termine della trasmissione, un fuori onda che i telespettatori non hanno visto: Helmut viene accompagnato fuori dal conduttore che lo tiene per un braccio, perché non è in grado di reggersi in piedi. Helmut Steinberger, detto Berger, è morto ieri, 18 maggio, poco prima di compiere settantanove anni. Serenamente, dicono. Dopo aver fatto davvero tutto quello che voleva. Senza essersi mai pentito di nulla. E senza rimpianti.