Dall'Unità del 27 settembre
Luciano Violante e la crisi della giustizia: il garantismo non serve più?
Archivio Unità - di Paolo Persichetti
Mentre volgeva al termine l’intensa stagione di conflittualità che aveva favorito importanti conquiste sociali, miglioramenti economici, nuove tutele, spazi di democrazia reale nei luoghi di lavoro, migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici, allargando la platea dei diritti e dei bisogni rivendicati e fatto emergere nuovi soggetti sociali e nuovi movimenti, si apriva ad Urbino, alle fine del settembre 1979 il quarto congresso di Magistratura democratica, i giudici di sinistra per intenderci. Suddivisi in diverse correnti animate da un dibattito che aveva traversato le passioni dei due precedenti decenni, i magistrati erano davanti ad un bivio: la penetrazione del diritto nei processi sociali ed economici, il ruolo di supplenza affidato loro dalla politica per reprimere la stagione della sovversione sociale e della lotta armata, avevano attribuito alla magistratura una funzione sempre più centrale. Cosa dovevano farsene? Quali erano i nuovi compiti per la nuova stagione che la retata del 7 aprile di pochi mesi prima aveva annunciato con forza?
Luciano Violante, ex pm alla procura di Torino poi agli uffici legislativi del ministero della giustizia, dove si era occupato delle attività di contrasto giuridico al terrorismo, divenuto parlamentare del Pci da pochi mesi, spiegava sulle pagine dell’Unità, senza tanti giri di parole, che il garantismo aveva fatto ormai il suo tempo. Era alle porte la stagione della «repressione disciplinare», come la definirà Giovanni Palombarini, ma soprattutto il Pci, convinto dell’attualità della propria candidatura alla guida del Paese, riteneva ormai d’intralcio il garantismo e l’uso alternativo del diritto. Il mutamento di rotta era drastico e il dibattito sul significato del garantismo che aveva visto confrontarsi in passato tre linee, cambiava di segno. Alla precedente scuola della “creazione giuridica”, che attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti mirava al reintegro del dettato costituzionale di fronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica conservatrice e restauratrice, attività che trasformava la magistratura da vecchio organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato a «soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile», si opponeva un ritorno alla certezza del diritto, inteso come ruolo conservativo della funzione giurisdizionale di fronte alle modificazioni della società o all’emergere di equilibri più avanzati o nuove domande e bisogni sociali. Le altre due linee, quella che riteneva il garantismo uno baluardo in difesa dello Stato, e la terza, minoritaria, che vi vedeva uno strumento per l’organizzazione della lotta di classe, soccombevano davanti ad una rivalutazione della funzione coercitiva dello Stato, posizione che apprezzava la nuova legislazione d’emergenza purché ricondotta «nell’alveo della solidarietà e della mobilitazione democratica». Si stavano lentamente creando i presupposti che, confermando l’iperattivismo giudiziario, vedranno alla fine del decennio ottanta il passaggio dalla figura del giudice «guardiano della costituzione» al «giudice sceriffo», investito di un ruolo di supplenza «del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo», che rivendicherà per sé un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata che minerà i parametri classici della tripartizione dei poteri.
Si chiudeva così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolveva nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società.
Questo articolo è apparso sull’Unità del 27 settembre 1979.
Il quarto congresso di Magistratura Democratica che inizia domani ad Urbino. può costituire un’occasione di particolare importanza per avviare in termini nuovi una riflessione sullo stato della giustizia, sui compiti e sulle responsabilità dei giudici.
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La difficoltà di costruire una nuova egemonia ha frenato la cultura delle riforme istituzionali proprio quando si trattava di tradurre la progettualità teorica della prima metà degli anni settanta in quei meccanismi di spostamento di potere che sono tipici di un effettivo processo riformatore; l’impasse ha favorito la produzione di leggine settoriali ed ha prodotto nelle leggi più organiche elementi di ambiguità o addirittura silenzi su questioni di particolare rilievo: ciò è avvenuto ad esempio, per la legge sull’equo canone e per quella sull’aborto. Contemporaneamente l’attuazione di alcuni fondamentali principi della Costituzione, la novità dei processi sociali, l’emergere di nuovi soggetti politici hanno prodotto radicali mutamenti nella struttura stessa del partito. Appaiono sempre più superate le tradizionali distinzioni tra diritto pubblico e diritto privato.
L’attuazione della riforma regionale e lo svilupparsi delle autonomie locali hanno dato vita ad un diritto amministrativo assai diverso da quello precedente, non più rotante attorno ad un rapporto di particolare prevalenza dello Stato nei confronti del cittadino, ma ancora privo di stabili coordinate. Gli studiosi del diritto privato hanno constatato lo sgretolamento dell’impianto concettuale del codice civile a causa del moltiplicarsi delle sedi di produzione legislativa (da quella comunitaria a quelle regionali) e perché la tutela degli interessi privati richiede sempre più spesso, oltre all’azione dei soggetti privati, l’intervento di organi pubblici: è un sistema di reciproci impegni tra interi pubblici e soggetti privati assai diverso dai vecchi capisaldi dell’autorizzazione e della concessione amministrativa, ma con linee di evoluzione ambigue, come dimostra la storia dell’intervento pubblico nell’economia.
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Il diritto è uno strumento di tutela, di partecipazione e di governo ed incide profondamente nella vita sociale e nel costume politico; la crisi del diritto può aprire la strada ad importanti trasformazioni sociali se si ha la forza e la volontà di dirigerla. Ma spesso in questi momenti, attorno alla vecchia scienza giuridica si accorpano interessi potenti, che puntano alla riscoperta delle tranquillizzanti mitologie della neutralità del diritto e del giurista per servirsene come mezzo per la ricomposizione delle proprie contraddizioni e di superamento della propria crisi. Non è impossibile che forze conservatrici si muovano in questa direzione per ricondurre la crisi del vecchio sistema alla non-controllabilità dei giudici, denunciando la loro indipendenza e proponendone limitazioni. Gli approcci, per ora indiretti, alla questione della responsabilità politica, della responsabilità cioè delle scelte discrezionali del giudice, indicano questo come il terreno sul quale potranno avvenire i primi a fondo.
Magistratura Democratica è consapevole di questi problemi? Ha colto che è in atto una durissima lotta tra vecchio e nuovo Stato, e che la giustizia può essere uno dei terreni privilegiati per questo scontro? Con quali idee e con quali analisi va al suo congresso?
I punti fermi della relazione del segretario Salvatore Senese restano la giurisprudenza alternativa e il garantismo. D’accordo: ma bisogna entrare più nel merito delle questioni perché si tratta di politiche istituzionali alle quali occorre dare un obiettivo per non farne pure e semplici etichette. La giurisprudenza alternativa, non come giurisprudenza di colore, ma come interpretazione del diritto alla luce dei fondamentali diritti costituzionali, poteva avere di per sé un significato di rottura dieci anni fa, quando dall’altra parte c’era il monolitismo della Cassazione, l’ideologia della neutralità del diritto e del giudice; ma oggi?
Anche quei magistrati che andando ben oltre le proprie prerogative, hanno sindacato atti di pura discrezionalità politica, potrebbero rivendicare l’alternatività della loro giurisprudenza e forse con qualche ardimento linguistico riuscirebbero a trovare nella costituzione perfino un puntello formale. Il garantismo è insieme una filosofia dei rapporti tra i cittadini e tra cittadini e stato, una politica istituzionale e una tecnica interpretativa delle leggi: ma in un sistema a maglie così larghe come il nostro può essere usato per le finalità più diverse. Non preoccupa certo l’uso strumentale delle garanzie processuali che fanno alcuni imputati, è un loro diritto. Preoccupa invece il richiamo al garantismo come forma di rafforzamento delle organizzazioni terroristiche cui fanno riferimento alcuni documenti dell’Autonomia organizzata (vedi «Lotta Continua» del 25 luglio). […]