Cent'anni dopo
Antonio Gramsci e i suoi quaderni sono la bussola del presente
Politica - di Michele Prospero
Ha scritto Wittgenstein che le teorie sono come una lente. Servono per osservare meglio le cose, cercando di scrutare oltre le apparenze. Perché allora utilizzare gli occhiali di Gramsci? I Quaderni (Einaudi, 1975) esplorano i problemi nodali che si ripropongono nelle giunture critiche della modernità. Ne ha interpretato bene il nucleo concettuale il sociologo Alessandro Pizzorno in un suo saggio degli anni 60 (ora contenuto nella raccolta La maschera dei classici, Laterza, 2023), nel quale egli avverte che “la nozione di «crisi organica» è forse l’elemento più interessante della teoria politica di Gramsci; e sorprende vedere che essa non è stata oggetto di approfondimento”.
L’opera gramsciana è in effetti anche un’indagine sulla lunga crisi dei trent’anni che sconvolge la civiltà italiana ed europea dopo il 1914. La prima guerra mondiale, letta nei Quaderni come “frattura storica”, appare come l’epilogo di “un mucchio” di molteplici scompensi (“è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche”, p. 1756) che si intrecciano tra loro e, “modificando la struttura generale del processo precedente”, conducono alla catastrofe della vecchia Europa.
La “crisi organica”, che “incide sugli elementi costanti”, è diversa dalla crisi congiunturale e ciclica, la sola ammessa da Luigi Einaudi, il quale suggeriva misure politiche immediate di contenimento per superare degli intralci solo momentanei. Più attrezzato nel cogliere l’impatto strutturale della crisi, si rivelò un filosofo, agli occhi di Gramsci verboso e astratto, come Ugo Spirito: la sua proposta di una “economia secondo un piano e non solo nel terreno nazionale, ma su scala mondiale, è interessante di per sé”. La “crisi organica” ha infatti ricadute generali, incide sulla politica, sulle economie e sul senso comune, con esiti che sfuggono alle capacità terapeutiche a disposizione delle singole autorità nazionali.
Mancando politiche condivise da parte degli Stati, ciascuna nazione è esposta a squilibri che affronta in maniera autonoma. Il sistema economico tedesco, nel quale spicca la centralità dell’industria, viene investito da crisi cicliche (l’inflazione) e organiche (la crisi-panico del ’29) che distruggono la Repubblica di Weimar. Le stesse dinamiche critiche non hanno il medesimo effetto catastrofico in Francia, e soprattutto in Inghilterra. Qui, invece dell’industria tradizionale con le sue classi, sono presenti il settore del proletariato commerciale e il mondo dei servizi, con “banchieri, agenti di cambio, rappresentanti”.
La “crisi organica”, per Gramsci, è sempre aperta ai più variegati esiti (“in ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso”). A Berlino si assiste alla rovina economica della classe media, colpita a morte dall’inflazione. Anche la disoccupazione si presenta con un “ritmo accelerato” assente invece a Parigi. Oltre all’economia, contano le istituzioni politiche e le soggettività della società civile. Ulteriore aspetto della “crisi organica” è, in tal senso, la “crisi del programma e dell’organizzazione scolastica, cioè dell’indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri intellettuali”: la mancanza di un ceto intellettuale di tipo moderno (specialista, oltre che politico) sprigiona effetti dissolutivi che inaridiscono le capacità di tenuta delle democrazie.
La “crisi organica” indica, nel laboratorio gramsciano, un processo storico che spezza i rapporti di potere abbracciando la cultura, i livelli cosiddetti sovrastrutturali, la geopolitica. L’emersione di sfide inedite accompagna l’erosione dell’egemonia delle classi dirigenti. Il loro vuoto di direzione conduce all’esplosione delle capacità di integrazione di un sistema. Attraverso l’attitudine egemonica, nelle situazioni normali le classi dirigenti governano con le risorse del consenso e riescono ad integrare le classi subalterne entro una cornice di stabilizzazione del raccordo tra Stato e società.
Nei paesi a più fragile statualità, processi inediti di mobilitazione mettono a nudo una crisi di rappresentanza, con il dileguarsi del riconoscimento della società civile nell’azione dei ceti governanti. Una grande crisi esterna (una guerra che infrange l’ordine internazionale alterando anche la tenuta psicologica delle masse rurali e del ceto medio impoverito) o una contrazione endogena (la celere mobilitazione di masse prima passive, e quindi mero oggetto di potere, che in un tempo accelerato tendono a farsi Stato) nel quadro di Gramsci spezzano le forme della politica e arrugginiscono i meccanismi consolidati dell’autorità. “Si parla di crisi di autorità e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”.
La “crisi di autorità” parte dall’alto, per l’incapacità delle strutture tradizionali del potere di resistere a una brusca caduta di sostegno. Lo scoppio di emergenze svela, in questo caso, l’inadeguatezza delle classi politiche nel governare le nuove istanze di partecipazione (suffragio universale, politica di massa). Un sommovimento dal basso, invece, si verifica quando la mobilitazione accelerata sfibra le attitudini integrativo-responsive del sistema (frattura centro-periferia, rapporto Stato-Chiesa, conflitto capitale-lavoro). In entrambi i casi, l’ordinamento rivela una crisi di rappresentanza e, avverte Gramsci, “i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali”. Il potere ufficiale dimostra un deficit di assorbimento delle domande popolari, mentre il contro-potere dei soggetti emergenti evidenzia la sua inadeguatezza nel guidare la mobilitazione sociale verso obiettivi di innovazione.
Il “mucchio delle crisi”, che la guerra salda, palesa insomma l’urto tra dimensione di massa dell’agire politico, con le esperienze collettive di mobilitazione, e deficit di rappresentanza delle élite. I liberali perdono il controllo della fiumana in movimento, i socialisti smarriscono la conduzione realistica del conflitto, aperto ora a moltitudini a digiuno di una consapevolezza storico-politica. Un prodotto dell’età di massa, rileva Gramsci, è il diffondersi di aspettative di rigenerazione, con “convinzioni mistiche” circa una imminente trasformazione palingenetica.
In politica divampa un sentimento di entusiasmo mitico, si crede nell’azione risolutiva. La prima lunga “crisi organica” dei trent’anni ha avuto come sbocco il cesarismo, che irrompe come una soluzione accattivante quando nello scontro “prevale l’immaturità delle forze progressive”. Le forze della conservazione, secondo Gramsci, hanno due strade per rispondere alla crisi di rappresentanza: la “rivoluzione passiva”, con la costruzione del meta-partito che assorbe i diversi spezzoni delle élite in crisi (la “soluzione organica” alla crisi), e il “cesarismo”, che si fa strada agitando “il martello del dittatore” per sedare il pluralismo arrembante.
Cosa suggerisce Gramsci per l’oggi? La seconda lunga “crisi organica”, il trentennio che va dal 1994 ad oggi, ha conosciuto il collasso della mediazione e l’esplosione della funzione rappresentativa. Queste ondate, nel segno dell’antipolitica e del populismo, si presentano, a detta di Gramsci, anche per via della flaccida “struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica”. Con l’astensionismo e la fuga dalla politica (nel 2013 oltre 10 milioni di elettori abbandonarono le due maggiori forze politiche della Seconda Repubblica), esplode la “delicata e pericolosa” crisi della rappresentanza.
In tale congiuntura, osserva Gramsci, con la caduta nell’oblio dei leader “che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono”, i partiti “non son più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe”. In un tale scenario, essenziale è intervenire sulla causa principale del fenomeno. Le pagine gramsciane aiutano a decifrare la genesi della “crisi organica”, che si presenta quando “la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso”. Non c’è dubbio che, nel caso italiano, questa “grande impresa politica” mancata è rappresentata da un efficace governo del processo di europeizzazione (moneta comune, mercato unico, legislazioni armonizzate).
Il contraccolpo della cessione di competenze per l’integrazione europea ha visto affiorare il cosiddetto sovranismo, che sfrutta la diffusa sensazione di declino dovuta a uno svantaggio competitivo e alla caduta della crescita. La percezione di una perdita di protezioni, e anche di relativo benessere, è all’origine dell’eclissi della rappresentanza. La diagnosi gramsciana è che “la crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo”. Investiti dalla crisi strutturale, i partiti della sinistra non riescono a guidare le classi subalterne, e i ceti popolari vengono sedotti da attori nuovi, i quali agitano con successo spinte demagogiche contro gli euro-burocrati e le élite distanti dalle masse.
Per questo, nelle giunture critiche, ai ceti dominanti riesce spesso l’operazione di varare cambiamenti cosmetici che, in nome del nuovo, riescono a coprire la resistenza del vecchio. Lo spiega bene Gramsci: “La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato”. Con il berlusconismo, i governi gialloverdi e il fascismo democratico attuale, il vecchio blocco dominante conserva il potere con le maschere del nuovismo.
Dinanzi ai fallimenti storici che rompono la capacità rappresentativa della politica, Gramsci suggerisce di somministrare antidoti più efficaci. Si tratta, cioè, di risolvere i nodi della crisi endogena (concependo un governo innovativo della dimensione europea) e di progettare la ricostruzione della rappresentanza per orientare le culture di massa altrimenti spaesate. La ridefinizione di un collegamento tra la sinistra, i sindacati e le classi subalterne è un processo indispensabile per la tenuta dell’ordinamento costituzionale, perché nella crisi “il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici”. Come fare a non soccombere in questo pantano, ecco a cosa serve oggi la lente di Gramsci.
(1. Continua)