Il populismo è oggi una categoria tra le più inflazionate. Non manca chi sentenzia: visto il carattere onnipervasivo del fenomeno, anche la sinistra dovrebbe aderire allo spirito del tempo e diventare una forza populista come le altre. In tal senso, Ernesto Laclau, accettando la contrapposizione tra moltitudine ed élite, cerca di ricavare da Gramsci una “ragione populista” rivolta alla fabbricazione di un capo carismatico che avanza con la maschera antisistema.
È corretto un uso populista di Gramsci? Nei Quaderni, la locuzione “populismo” indica la rinuncia al ruolo fondativo del conflitto di classe per l’inseguimento di un popolo concepito come unità mitica. In direzione di una comunità fittizia, non sconvolta dal conflitto sociale, il populista si specializza nella “esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi)” (Q, p. 812).
Gramsci legge i populismi, nel campo letterario e in quello politico, come un momento connesso alla separazione delle élites dal popolo: “Non solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki ecc.)” (Q, 397). Questo tipo di populismo evoca un’inclinazione alla radicalizzazione della protesta sotto la direzione di ceti intellettuali insoddisfatti che rifiutano la politica organizzata e il conflitto di classe.
Il ricorso a certi “sentimenti critici elementari”, che inventano il popolo come un’entità coesa e perciò mitizzata, implica anche una forma di democratismo. Il limite di questa cultura, agli occhi di Gramsci, è quello di appartenere a sensibilità sorte prima del 1848 e quindi inadeguate a cogliere il proletariato come soggetto storico che reclama differenze, impone partizioni. La saldatura operaia tra condizione economica e soggettività politica rende anacronistica ogni concezione unitaria della comunità.
Secondo Gramsci (Q, 915), il popolo quale organismo compatto non è un dato reale, dal momento che “l’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà politica pubblica che potrebbe essere discorde”. Esistono cioè dissidio e conflitto, non c’è omogeneità. Lontano da un pensiero critico, il populismo assume le forme dell’antipolitica e lo stile retorico demagogico. Alle “frasi superficialmente scarlatte” Gramsci preferisce il politico realista, che avversa la manipolazione e gli schemi moralistici. Contro i manicheismi che vedono un popolo buono opposto a una élite cattiva, i Quaderni assumono un conflitto aperto e costruttivo “per gli uomini che rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l’«antitesi»” (Q, 1595).
Le deformazioni populiste, che delegittimano l’avversario, le élite, la “casta”, agli occhi di Gramsci impongono una regressione rispetto alla civiltà del conflitto. In opposizione agli stampini del linguaggio dei populisti, i Quaderni recuperano uno spirito di scissione, cioè la soggettività della classe che si percepisce nella sua autonomia (Q, 333). La soluzione populista prevede una ostilità demagogica verso la politica e il ricorso a polemiche “di carattere psicologico o moralistico”.
Il populismo nega ogni ancoraggio della politica alla geografia delle classi sociali e richiede quadri deformanti, scorciatoie semantiche. La mentalità demagogica si riduce alla “forma mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L’attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi” (Q, 1595).
Mentre auspica un pensiero critico-sistematico, Gramsci (nulla a che vedere con il culto del senso comune alla De Man e con la “scienza popolare”) disprezza la “letteratura popolare in senso deteriore” vista come “degenerazione politico-commerciale”, che però va studiata e compresa lo stesso: anche le costruzioni intellettuali scadenti possono rivelare tendenze reali. La fraintesa categoria di “nazionale-popolare” rinvia piuttosto a Shakespeare, alla tragedia greca, alla più elevata produzione culturale, e non ha nulla di riconducibile al primitivo, agli “ammiratori del folklore”, agli “stregonisti” (Q, 329).
Le suggestioni populiste, che Laclau ricava dai Quaderni, cozzano con la struttura del pensiero gramsciano. Il rifiuto dell’antipartitismo (il partito-filtro è un essenziale veicolo della modernità politica) e il ruolo fondamentale assegnato alla mediazione (cultura, scuola, organizzazioni, società civile, rappresentanza) rendono evidente il divario tra Gramsci e le visioni populiste. La critica del capo carismatico (la leadership esige il riconoscimento della capacità di direzione entro aperti canali di raccordo), la valorizzazione della funzione dell’élite (la costruzione di nuovi gruppi dirigenti è il compito della politica), il rigetto di ogni interpretazione complottistica delle complesse vicende storico-politiche e dei processi di mondializzazione dell’economia e delle culture, rendono Gramsci incompatibile con ogni vago populismo di sinistra.
Più attenta al profilo analitico dei Quaderni si mostra l’antropologa Kate Crehan (Gramsci, Culture and Anthropology, Londra 2002, p. 155), la quale comprende che Gramsci è “radicalmente estraneo a qualsiasi forma di populismo”. L’antidoto a una narrazione suggestiva e potente capace di sfidare la logica e la coerenza, non risiede nella velleità di fabbricare da sinistra, come alternativa ai modelli trionfanti a destra, un linguaggio uguale e contrario, cioè un populismo gauchista che rinunci al materiale per rifugiarsi nell’immaginario. Secondo Crehan (The Common Sense of Donald J. Trump: A Gramscian Reading of Twenty-First Century Populist Rhetoric, Londra 2018), con l’arsenale di Gramsci è possibile comprendere come contrastare la “retorica populista” dell’era Trump.
Dinanzi a un imprenditore che con un “movimento del senso comune” indossa il costume del politico-antipolitico, non basta la celebrazione della serietà, del rigore, della competenza. A nulla serve graffiare il tycoon rilevandone le contraddizioni, gli errori grammaticali nei tweet, lo scarto tra promesse e realizzazioni possibili, le seriali bugie. L’incoerenza è un principio costitutivo del “senso comune” populista.
La bassa oratoria “irrazionalista” di Trump, che si scaglia contro il modo di vivere dell’élite metropolitana, prevale perché, con le sue metafore sempre politicamente scorrette, riesce a “collegarsi con una vasta schiera di americani arrabbiati attraverso latrati reiterati all’infinito. Come ha osservato Gramsci, la ripetizione è il miglior mezzo didattico per lavorare sulla mentalità popolare” (Crehan). Un magnate che sfonda con un linguaggio rozzo ma apparentemente “autentico” parla un gergo che suona come veritiero al cospetto della sensibilità modellata dai social e dalla tv spazzatura. Per mettere sotto scacco il leader populista, non serve contrapporre al suo dialetto antipolitico la serietà del mestiere della politica, né tantomeno rincorrerlo sul terreno del “common sense”.
Contro l’assenza di rigore logico-sistematico (il “lorianesimo”) e la “teratologia intellettuale”, il pensiero gramsciano respinge ogni schematismo elementare. Per il pensatore sardo, “riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso” (Q, 1440). In vista di una indagine critica, “il senso comune è un concetto equivoco, contraddittorio, multiforme” (Q, 1399), che va maneggiato con coerenza analitica per afferrare la complessità dei processi. Per smontare il populismo, che naviga nell’apparenza e nel simbolico, è indispensabile riportare le narrazioni al livello delle sofferenze materiali, delle diseguaglianze, dei conflitti. Così si rende tangibile, sul piano dell’esperienza reale, il peso dell’esclusione e con il supporto della cultura critica si dà un quadro coeso all’alternativa politica.
Questo sembra essere il suggerimento che Gramsci ricava dalla lettura dell’esperienza del boulangismo come ribellione antipolitica. Sebbene sia evidente che dietro ai movimenti di tipo populista c’è lo zampino di poteri esteri e di centri nazionali di influenza, l’analisi non può ridursi a una scoperta degli intrecci oscuri, finanziari e organizzativi. Gramsci precisa che, al di là di ogni “tinta moralistica” che voglia rintracciare la presenza di mire opache e calcoli interessati, l’attenzione “deve dirigersi alla ricerca degli elementi di forza e degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l’ipotesi «economistica» afferma un elemento di forza, la disponibilità di un certo aiuto finanziario diretto o indiretto (un giornale che appoggi il movimento è un aiuto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco. La ricerca quindi, come ho detto, dev’essere fatta nella sfera del concetto di egemonia”. Va superato “l’errore teorico e pratico” di chi, postulando l’esistenza di un “raggruppamento dominante”, rinuncia a comprendere le cause e la capacità espansiva dei movimenti populisti. Il concetto di egemonia, nota Gramsci, suggerisce invece un’altra strada. “Quando un tale movimento si forma l’analisi dovrebbe essere condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale del movimento; 2) rivendicazioni che i dirigenti pongono e che trovano consenso in determinati strati sociali; 3) le esigenze obbiettive che tali rivendicazioni riflettono; 4) esame della conformità dei mezzi adoperati al fine proposto; e 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non in forma moralistica, presentazione dell’ipotesi che tale movimento necessariamente sarà̀ snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci credono. Invece quest’ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (dico che appaia tale con evidenza e non per un’analisi «scientifica» [esoterica]) esiste ancora per suffragarla, cosi che essa appare come un’accusa morale di doppiezza e di malafede ecc. o di poca furberia, di stupidaggine. La politica diventa una serie di fatti personali”.
La connessione del populismo con le domande sociali insoddisfatte nell’ordine politico esistente sollecita un riconoscimento del fondamento oggettivo, al di là delle semplificazioni, dei movimenti di protesta. Il “nucleo di verità” del fenomeno populista non può essere trascurato proprio se si intende denunciare il carattere “necessariamente snaturato” di forze che agitano simboli e riferimenti tra loro contraddittori. Percepire i dati reali, ricostruire il senso delle cose a partire dal vissuto, dare significato ai singoli frammenti quotidiani, questo è il percorso che Gramsci suggerisce per definire una politica capace di ristabilire momenti di connessione emotiva dopo la crisi di rappresentanza.
(2. Continua)