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La riforma Cartabia penalizza i poveri: escludere la perseguibilità d’ufficio incontra solo il favore delle élite

La riforma Cartabia penalizza i poveri: escludere la perseguibilità d’ufficio incontra solo il favore delle élite

Un intervento deflattivo diretto alla riduzione del carico giudiziario. Questa è la prospettiva che ha spinto il legislatore ad ampliare il novero dei reati perseguibili a querela di parte. È, così, avvenuto che la Riforma Cartabia abbia escluso la perseguibilità di ufficio per alcuni reati: il furto, il sequestro di persona, la violenza privata. Nella stessa prospettiva, poi, ha richiesto la punibilità a querela anche per alcune fattispecie, che, in presenza di talune aggravanti erano prima perseguibili di ufficio: la minaccia, la truffa, la frode informatica, la violazione di domicilio. La considerazione di fondo degli autori della riforma è che si sarebbe in presenza di reati che toccano beni attinenti all’individuo o al suo patrimonio, che non coinvolgono l’interesse collettivo e la cui punibilità, quindi, può essere affidata alla scelta discrezionale del cittadino che ha subito l’offesa.

Quest’ultimo, quindi, se vuole la punizione del colpevole deve presentare una apposita querela e, a pena di inammissibilità, deve in essa eleggere il proprio domicilio. Deve, poi, seguire con attenzione il processo, perché se non si presenta in udienza senza giustificato motivo la querela si intende rimessa. Proprio in questi giorni, su iniziativa del ministro Nordio, è stata approvato un intervento correttivo che ha, tuttavia, lasciato inalterato l’impianto generale: è possibile, anche in attesa della querela, l’arresto in flagranza, ma l’autore del reato deve essere scarcerato se la querela non interviene nelle ventiquattro ore successive; è stata ripristinata la procedibilità di ufficio quando il fatto sia realizzato da un soggetto appartenente alla criminalità organizzata, per evitare che la facoltà di presentare la querela sia vanificata dal potere di intimidazione di queste persone. Dietro la scelta legislativa di ampliare il novero dei reati punibili a querela, vi è la convinzione diffusa che si sia in presenza, nella maggior parte dei casi, di reati bagatellari, come tali caratterizzati da una minima lesività e, di conseguenza, da una minore rilevanza sociale.

Ma è davvero così? Potrebbe esserlo dal punto di vista delle élite intellettuali, politiche e professionali che hanno prima immaginato e poi varato la riforma. Ma certamente non lo è dal punto di vista della maggior parte dei cittadini, che subiscono quei reati. Si pensi all’impiegato al quale in metropolitana viene “sfilato” lo stipendio o alla famiglia alla quale vengono portate via i preziosi, che hanno accompagnato la sua storia. Si aggiunga che, se si guarda alle statistiche, la maggior parte di questi reati sono commessi proprio nei quartieri popolari o sui mezzi di trasporto usati dalle masse. In quei quartieri sono spesso assenti gli strumenti più efficaci di tutela (porte blindate, sistemi di videosorveglianza, etc.). Così come più agevole è il furto con destrezza in un mezzo di trasporto pubblico in un’ora di punta.

In questa diversa prospettiva, il carattere bagatellare dei reati, come giustificazione della perseguibilità a querela, viene meno. Per l’impiegato, al quale viene “sfilato” lo stipendio, il danno non è per niente poco rilevante: sono venuti meno i mezzi di sussistenza per lui e la sua famiglia per l’intero mese. Così come è percepito come irreparabile il danno per la sottrazione dei preziosi di famiglia. Non è il reato ad essere bagatellare, ma è la gravità dell’offesa recata a questo tipo di vittime, che è stata considerata di scarsa rilevanza e, perciò, immeritevole di tutela. Per il Palazzo i dolori della gente comune hanno, evidentemente, poca importanza. Né, per contrastare queste considerazioni, sembra convincente l’osservazione che, comunque, è sempre possibile ottenere l’intervento dello Stato attraverso la querela. Questo per due motivi. In primo luogo, perché la presentazione della querela richiede, spesso, un minimo di conoscenze legali per poter mettere in evidenza gli elementi rilevanti del fatto affinché in esso sia ravvisabile un reato. Non tutti hanno queste conoscenze e, certamente, i meno abbienti hanno minori opportunità di ottenere assistenza professionale. Né si può immaginare che la possibilità, prevista dall’intervento voluto dal ministro Nordio, di presentare oralmente la querela possa ovviare al problema, a meno di non volere trasformare i Commissariati di Polizia o le Stazioni dei carabinieri, già oggi soverchiati di lavoro, in uffici di consulenza. In secondo luogo, perché il timore di una reazione può indurre a non presentare la querela anche quando l’autore non appartenga alla criminalità mafiosa. Infine, è inevitabile che le strutture statali dedicate alle indagini saranno meno motivate a perseguire reati, che il legislatore ha dichiarato essere poco rilevanti per la collettività.

Se queste considerazioni sono corrette, le conseguenze negative di questa riforma appaiono devastanti. È come se lo Stato avesse estromesso, per alcuni aspetti, una parte della popolazione, quella meno protetta, da uno dei servizi fondamentali che è chiamato ad assolvere: quello della sicurezza. Attraverso la previsione della punibilità a querela di determinati reati, dunque, lo Stato ha smesso di presidiare determinate aree e fasce sociali. Già prima della riforma era chiaramente percepibile l’assenza dello Stato in molti quartieri delle grandi città: si pensi a quei quartieri, in cui chi deve ricoverarsi in ospedale rischia al ritorno di trovare la propria abitazione occupata e di non potervi rientrare mai più. Oggi, per chi abita in quei quartieri la sensazione di assenza dello Stato sarà ancora più intensa e drammatica.

Una esigenza di riduzione dei carichi della giustizia penale è certamente esistente. Questo problema avrebbe potuto essere affrontato in due modi: riducendo il numero delle fattispecie di reato e, quindi, contrastando quel populismo panpenalista, che ha portato ad una moltiplicazione senza senso delle ipotesi di reato, che sono ormai divenute un numero sconfinato. Ma le pulsioni giustizialiste hanno impedito una soluzione di questo tipo. L’altra soluzione avrebbe potuto essere quella di abolire il principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale, in modo che potessero essere filtrate ed espunte tutte le vicende effettivamente bagatellari. Del resto, per tali vicende già oggi è prevista la non punibilità, ma all’esito di un giudizio, per la tenuità del fatto. Una soluzione del genere avrebbe urtato contro pregiudizi consolidati e, soprattutto, tolto a molti pubblici ministeri la foglia di fico della obbligatorietà dell’azione penale, con cui sono giustificate anche le inchieste demenziali.

Si è preferito ridurre il carico penale sottraendo la tutela a quella parte di popolazione, che, siccome più debole, ne avrebbe avuto ancora più bisogno. Una soluzione nefasta, destinata a creare una frattura nel tessuto sociale e che già nel breve periodo darà frutti avvelenati.