Morti come topi soffocati nella stiva durante i lavori di manutenzione di una nave cisterna per il trasporto di gas gpl, la Elisabetta Montanari. Tredici operai, la gran parte dei quali assunti al nero, provenienti da ditte diverse. Il più giovane aveva diciotto anni, il più anziano sessanta. Quando erano già morti l’azienda titolare del cantiere, la Mecnavi srl, anziché collaborare con i pompieri al tentativo di salvataggio, si affrettò ad inviare una segretaria a ritirare i libretti di lavoro nelle abitazioni delle vittime per tentare in extremis una surrettizia messa in regola. Ravenna era una specie di fronte del porto. Si lavorava sdraiati all’interno di un reticolo di cunicoli che traversava le stive per ripulire le pareti incrostate di catrame e ruggine. Alcune lamiere del doppiofondo, destinato a ospitare il combustibile presentavano un avanzato stato di corrosione e dovevano essere sostituite. I doppifondi dovevano essere bonificati, eliminando il materiale infiammabile, prima di procedere al taglio delle lamiere usurate e alla loro sostituzione. Un lavoro faticoso, ingrato, sporco, pericoloso, poco qualificato. Sdraiati al buio per 10 ore con stracci, solventi, spatole, raschietti, spazzole di ferro. All’interno della stiva numero 2, alle 7,30 del mattino iniziarono il proprio turno di lavoro diciotto lavoratori. Dipendevano da sei aziende diverse e nessun gruppo di lavoratori, era informato della presenza degli altri. Si trattava di sei carpentieri-saldatori e dodici “picchettini”. I saldatori non sapevano della presenza di chi era in stiva, iniziarono a tagliare delle lastre d’acciaio con la fiamma ossidrica. Residui di gas innescano una fiammata che venuta a contatto con il catrame incrostato nelle pareti della stiva provocò un incendio. Non era la prima volta, alcuni scampati racconteranno che era già accaduto la settimana precedente. Stavolta però le esalazioni prodotte dalla nube tossica non lasciano scampo. La tragedia mise in luce la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza sul lavoro, come la disponibilità di estintori e presìdi antincendio, la previsione di vie di fuga da seguire in caso di pericolo. Evidenziò anche le durissime condizioni a cui era sottoposta la manodopera impiegata nei cantieri di manutenzione. Emerse, inoltre, il diffuso sistema di caporalato che si muoveva per il reclutamento della manodopera nella realtà industriale della manutenzione navale, attingendo spesso alle fasce più marginalizzate e indifese della società, come tossicodipendenti ed extracomunitari. Fu rilevata, inoltre, la disorganizzazione del cantiere, con squadre operaie che lavoravano in simultanea, talmente prive di coordinazione che ciascuna ignorava perfino la presenza delle altre maestranze.
Uno dei fratelli Arienti, responsabili della Mecnavi, si presentò il giorno successivo ai giornalisti che seguivano la vicenda «sorridente ed elegante», ribadendo quanto detto l’anno precedente in una intervista: «I sindacati non li voglio. In questa azienda non li ho voluti e spero che non ci siano nemmeno per il futuro». Nemmeno dopo i tredici morti? – gli chiede Jenner Meletti, cronista dell’Unità – «No, perché tanto con i sindacati non cambia nulla. E poi penso – dice papale papale – che è umano che una persona voglia evitare controlli. Questi sindacati sono poi cosi fastidiosi…». Secondo lui, sulla nave era tutto in regola. C’erano ventilatori ed estintori, tutto a posto. Lascia intendere che la colpa di quanto accaduto ricadrebbe su quei lavoratori che davanti all’incendio si sono lasciati prendere dal panico. Il ritratto che ne fa il cronista è agghiacciante: Sorride spesso, fa battute, sgrida i giornalisti per cronache «un po’ cattivelle». Questo imprenditore d’assalto ha 34 anni, un fatturato di 22 miliardi nel 1986, con previsione di 40 per l’anno in corso. «A cosa serve il sindacato?» – si chiede – «Tanto chi entra qui sa cosa lo aspetta». Cosa? «Le regole, come le otto ore di lavoro al giorno, qui non si possono rispettare. Una settimana abbiamo una nave in cantiere, quella dopo magari ne abbiamo sette. I lavori li facciamo contemporaneamente, perché si fa così. Sennò l’armatore, che con la nave ferma perde i soldi, si serve dalla concorrenza». «Voglio essere chiaro: io non ho il potere di vietare la costituzione di una commissione interna, purtroppo. Nei miei cantieri il sindacato non è entrato. Le tutele? Sono convinto che chi vale, chi sa lavorare, sa tutelarsi da solo. Io sono un imprenditore, non un samaritano».
Siamo nella seconda parte degli anni 80 del Novecento, l’economia neoliberale aveva imposto le sue regole, anzi l’assenza di regole, la giungla del mercato, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro, i bassi costi salariali, la scomparsa di tutele e contratti nazionali, il regime dei subappalti e delle esternalizzazioni selvagge. La strage della Elisabetta Montanari rappresentò l’esempio più vivido dell’arretramento sociale che aveva investito la «modernizzazione italiana». Le indagini e il successivo processo condussero ad una condanna a 7 anni e mezzo per Enzo Arienti, pena che fu poi ridotta a 4 anni nel 1994.
Questo articolo di Natalia Ginzburg è apparso sulla prima pagina dell’Unità del 15 marzo 1987.
Uso ascoltare alla radio il bollettino del Gr3, alle 7,20, e pochi minuti dopo «Prima pagina». Della tragedia di Ravenna il bollettino di stamattina 14 marzo non ha pronunciato sillaba. Ne ha parlato invece poco dopo, immediatamente e a lungo, la giornalista di «Prima pagina», che è, questa settimana, Mariella Gramaglia. Come mal il bollettino abbia taciuto di questa atroce disgrazia, gli ascoltatori della mattina se lo sono chiesto e se lo chiedono con enorme stupore. Evidentemente a quelli che curavano il bollettino la notizia era apparsa irrilevante. Strano, perché essa è in testa a tutti i giornali. Si tratta, dicono i giornali, d’una delle più gravi tragedie del lavoro avvenute in questi ultimi anni. Ma vi sono qui alcuni particolari agghiaccianti. Gli operai morti a Ravenna erano tutti molto giovani, e per due di essi era il primo giorno di lavoro. Tutti erano disoccupati da tempo, o lavoravano in modo precario, e avevano accettato quel lavoro ad alto rischio, mal pagato, senza pensarci due volte. Dovevano stare sdraiati sulla schiena o sul ventre, ore e ore, con stracci e detersivi, a ripulire le pareti del cunicolo d’una nave. Il cunicolo era un budello scuro e gelato e non c’erano là per loro difese di nessuna specie, né ventilatori, né maschere antigas. Quando è scoppiato l’incendio, chi lavorava nella parte alta della nave ha visto le fiamme e si è salvato. Ma loro, nel budello, le fiamme non potevano vederle e quando li ha investiti il fumo hanno cercato invano, per qualche attimo, una via di salvezza. D’altronde, da quel budello, era difficile uscire anche in situazioni normali.
«Incuria, lavoro nero, caporalato, sono all’origine della tragedia» dicevano i volantini che venivano distribuiti dai sindacati per le strade di Ravenna, durante la manifestazione che ha avuto luogo nel pomeriggio del venerdì, appena la città ha avuto notizia della sventura. È una svventura che dovrebbe indurci a riflettere. Vorremmo che ne fossero individuate e punite le responsabilità. E inoltre vorremmo che fosse risolutamente affrontato, nel nostro paese, il dramma della disoccupazione.