L'intervista
“Disarmiamo il mondo e apriamo le porte ai migranti”, parla padre Camillo Ripamonti
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La guerra in Ucraina, il Mediterraneo e le stragi di migranti. I due “fronti” di Papa Francesco. L’Unità ne discute con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.
Praticare la pace e non solo invocarla. È quello che sta tentando di fare Papa Francesco nella guerra d’Ucraina. Eppure, specie in Occidente, questa iniziativa è vista con diffidenza se non con dichiarata ostilità. Perché, padre Ripamonti?
Francamente non trovo spiegazioni a questo ostracismo. Tutti, a parole, si dicono per la pace. Ma allora ogni azione concreta che abbia questa finalità dovrebbe essere vista, a livello internazionale, favorevolmente. Questo vale anche per l’iniziativa di Papa Francesco, che ha il merito di non parlare ma di agire per favorire una soluzione negoziale. Perché di questo si tratta: Bergoglio non intende sostituirsi a quanti, a cominciare dai due belligeranti, devono trattare un accordo. Quello che Francesco si propone è di facilitare il dialogo. Agire per la pace vuol dire contribuire a mettere attorno al tavolo sia chi ha invaso sia chi è vittima dell’invasione. Per ottenere qualcosa di concreto, entrambi dovranno fare un passo indietro, perdere qualcosa. Suppongo che sia questo perdere qualcosa da entrambi le parti che faccia storcere il naso. Scrive Papa Francesco nel suo testo Un’Enciclica sulla pace in Ucraina: “A quante altre tragedie dovremo assistere prima che tutti coloro che sono coinvolti in ogni guerra comprendano che questa è unicamente una strada di morte che illude soltanto alcuni di essere i vincitori? Perché sia chiaro: con la guerra siamo tutti sconfitti!”.
Come “facilitatore” di un dialogo tra Russia e Ucraina, Bergoglio ha indicato il cardinale Matteo Zuppi.
Il cardinale Zuppi già in passato ha assunto ruoli di mediazione. È una persona che agisce concretamente per ottenere dei risultati che sono a vantaggio degli ultimi, a vantaggio della pace. È persona che ha gli strumenti e una capacità di dialogo per poter mettere attorno al tavolo le parti e con loro costruire qualcosa.
Più volte Papa Francesco ha sottolineato che una pace senza giustizia è una non pace.
Già a partire dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII, era rimarcato che una pace senza giustizia può essere anche realizzata ma ciò che si ottiene è qualcosa d’instabile. L’ingiustizia crea quella disuguaglianza, quella disparità, quella privazione all’interno dei poli, che determina le condizioni per i conflitti. Se non si agisce per la giustizia come presupposto per la pace, il rischio è che la pace che si ottiene non sia duratura. La pace o è giusta o non è. Bisogna lavorare per la giustizia. Giustizia sociale ma anche una giustizia che dà dei nomi precisi a chi è vittima e chi l’aggressore, percorrendo poi dei cammini di riconciliazione.
Papa Francesco ha usato più volte il concetto di “terza guerra mondiale a pezzi”. L’attenzione della comunità internazionale è quasi del tutto concentrata sulla guerra in Ucraina. Eppure nel mondo sono in corso oltre 40 conflitti, ultimo in ordine di tempo quello che sta dilaniando il martoriato Sudan.
I conflitti nel mondo sono molti e determinano quella instabilità che molto spesso è alla base delle migrazioni forzate di cui l’Occidente si dice vittima, ma in realtà sappiamo bene che le migrazioni forzate investono soprattutto le aeree vicine a quelle di conflitto, come dimostra la stessa guerra in Ucraina. Sono soprattutto i paesi vicini che accolgono il maggior numero di persone in fuga dalla guerra. Se non si affronta questa guerra mondiale a pezzi disarmando il mondo, si creeranno altri conflitti. La presenza delle armi alimenta la cultura della sopraffazione del più forte sul più debole, e il passo successivo, la guerra, è molto rapido. L’idea di “guerra mondiale a pezzi” ci deve richiamare alla necessità, nel mondo, di lavorare per fermare la corsa al riarmo. Un mondo con più armi è un mondo meno sicuro. Un mondo in cui è sempre presente il rischio di un conflitto nucleare. Disarmare il mondo per creare quel cambio di paradigma e di visione fondati sulla cultura del dialogo invece della cultura della supremazia di un popolo su un altro popolo.
Dalla guerra alla tragedia dei migranti. “I viaggi in passato in mare erano durissimi. Molti morivano in viaggio per naufragi o per malattie. Oggi purtroppo muoiono perché noi li lasciamo morire nel Mediterraneo”. Così Papa Francesco in una recente udienza generale del mercoledì.
Sì. La mancanza di attenzione verso questa guerra mondiale a pezzi, che mette in movimenti popolazioni intere, è resa ancor più inaccettabile dall’approccio “disumano” al tema delle migrazioni. Nel 2022 non solo non abbiamo creato alternative, ma sempre più spesso abbiamo ostacolato chi fugge. Molti di questi migranti in fuga, infatti, sono bloccati alle frontiere dell’Europa: in Libia, in Turchia, e ora ci prodighiamo perché questo avvenga anche in Tunisia. E allora alla domanda “dov’è tuo fratello/sorella in Europa?” dovremmo rispondere: bloccato alle frontiere. E questo non fa altro che ritardare e rendere più pericolosi i viaggi (la tragedia di Cutro è solo uno degli ultimi drammatici esempi). Coloro che arrivano, i sopravvissuti, avranno sul loro corpo e nella loro mente traumi che avremmo potuto loro evitare, se avessimo organizzato vie sicure e legali. E in questo scenario sempre più drammatico, ostacolare i movimenti di popoli in fuga dalle guerre aggiunge crimine a crimine. La non attenzione a quel Mediterraneo diventato un immenso cimitero è una riprova. Non soltanto non ci occupiamo a livello internazionale di questa guerra mondiale a pezzi, non ci occupiamo di un disarmo reale del mondo, ma di fronte al movimento di popoli che conflitti e ingiustizia hanno determinato, noi rispondiamo rendendo più complicati questi viaggi e abbandonando le persone alla mercé di trafficanti di esseri umani e a un destino di morte. Si può anche pensare, il più delle volte sbagliando, che l’Occidente non sia responsabile dei conflitti e dei disastri ambientali che sono alla base di fughe disperate di una umanità sofferente, certo è che l’Occidente è corresponsabile delle morti di decine di migliaia di persone che cercavano una via di fuga nel Mediterraneo o sulla rotta balcanica. Occorre riflettere sulle cause remote e sull’assenza di una governance globale, sempre piegata agli interessi di parte, che sono alla base di guerre e di disinteresse sotto l’aspetto della cura del Creato e che provocano la fuga forzata dalle proprie case. Lo spostamento forzato di 100 milioni di persone è un grido assordante per le nostre civiltà. Occorre imboccare una via diversa ed ascoltare questo grido di allarme. Non sono i rifugiati ad attraversare il limite o il confine ma lo siamo tutti noi, pensiamo solo al commercio delle armi o le scelte che provocano l’attuale crisi climatica.
Che Europa è, padre Ripamonti, quella che sembra avere come unico assillo l’esternalizzazione delle frontiere e che punta ad accordi con quelli che individua come “Gendarmi del Mediterraneo”, finanziandoli, armandoli perché facciano il lavoro sporco, i respingimenti, al posto nostro?
È una Europa senza futuro. Se ci ostiniamo a pensare all’Europa come fortezza, mettendo in atto politiche che mirano esclusivamente a esternalizzare le frontiere, con l’obiettivo di tenere fuori quelle popolazioni che sono alla ricerca di diritti e di un futuro vivibile, saremmo responsabili, a lungo termine, dell’agonia del nostro continente. Tenendo fuori queste persone e non riconosciamo loro diritti, prima o poi questi diritti non saranno riconosciuti neanche a chi è all’interno di questa “fortezza” e, soprattutto, questa “fortezza” non sarà in grado di rigenerarsi e immaginare un futuro diverso. La costruzione di un’Europa sicura, in questa nostra epoca come alla fine della “guerra fredda”, non può che passare attraverso la costruzione di un’Europa capace di essere davvero casa comune. Oggi la globalizzazione impone una sfida ancora più ambiziosa: l’Europa deve diventare casa comune per chi ci vive, ma anche impegnarsi perché il mondo intero sia casa comune per l’intera famiglia umana. Questa è la vera e più radicale sfida culturale che ci aspetta nei prossimi anni come cittadini europei.