Non mentiva, ricordava male...
Davigo e il caso Loggia Ungheria, chissà cosa penserebbe il Piercamillo pm del Davigo imputato
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Siamo sicuri che il dottor Piercamillo Davigo, nel processo che lo vede imputato per rivelazione di segreti intorno al pasticcio della c.d. Loggia Ungheria, non sta esercitando la facoltà riconosciuta a quelli che si trovano nella sua condizione: e cioè la facoltà di dire bugie.
Dunque non mentiva tempo fa, ma semplicemente ricordava male, quando diceva di aver maneggiato i file relativi ai presunti verbali segreti, a lui consegnati dal Pm Storari, all’inizio di aprile del 2020: e non mentiva poi, ma semplicemente si affidava a un ricordo diverso, quando, l’altro giorno, diceva di averne fatto uso il 3 o il 4 maggio, inviando a sé stesso una email contenente quei documenti, che avrebbe stampato per portarli al Csm. Lì, come sappiamo, ha discusso della faccenda con una pluralità di persone, compreso l’ex presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, col quale si sarebbe intrattenuto – così dice Morra medesimo – “nella tromba delle scale” (naturalmente il dottor Davigo non è responsabile delle eventuali inesattezze né dell’italiano perturbato di quel parlamentare).
Dice: ma che importa se quei file li aveva un mese prima o un mese dopo? Beh, importa perché l’ipotetico reato si sarebbe consumato dal momento della consegna dei file: e sapere quando e tramite quale mezzo un reato si è consumato forse ha qualche importanza. Ma poi importa per la somma di cose strane che rendono impossibile accertarlo.
E infatti. Non si può accertare, lo abbiamo visto, affidandosi ai ricordi dell’imputato Davigo: che sono divergenti. Non si può accertare esaminando la chiavetta Usb su cui erano caricati quei file, perché il dottor Davigo dice: a) che non sa dove sia finita, “siccome le pen drive si perdono sempre”; b) che comunque potrebbe averla riutilizzata e, riutilizzandola, avrebbe cancellato i file, ”per fare spazio”. Non si può accertare esaminando le email che Davigo avrebbe mandato a sé stesso, con dentro quei file, perché aveva usato l’account a disposizione dei magistrati (@giustizia.it), che nel frattempo è stato chiuso, lui essendo andato in pensione. Non si può accertare esaminando i messaggi WhatsApp scambiati con il suo interlocutore, perché, spiega Davigo: a) il telefono si è rotto; b) lo ha “rivenduto” a un concessionario Apple, che gliene ha dato un altro a buon prezzo; c) il concessionario gli ha fatto bensì un backup dei dati, ma solo di quelli “importanti” (tra i quali, dunque, non i messaggi riguardanti i verbali segreti, che erano cose evidentemente irrilevanti). Che poi il backup delle chat di WhatsApp non c’entri nulla e sia autonomo rispetto al backup del dispositivo è un dettaglio tecnico che conosciamo solo noi adolescenti, e non si può pretendere che se ne abbia conto in un processo penale.
Ora: noi siamo assolutamente certi, lo ripetiamo, che il dottor Davigo dica la verità e che, dunque, non menta come pure la legge gli consentirebbe di fare. Siamo persino dalla sua parte, perché per noi l’imputato è per definizione parte debole. Ci domandiamo solo che cosa penserebbe il pubblico ministero Piercamillo Davigo di un imputato che dicesse le verità dell’imputato Piercamillo Davigo.