C’è una foto famosa in cui si vede don Lorenzo Milani, già sofferente, mentre tiene in braccio un bambino africano, figlio di una coppia congolese che era andata a trovarlo a Barbiana. In Lettera a una professoressa (1966) imposterà lui stesso una folgorante riflessione al riguardo: «In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’essere fatti uguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità». Gianni, ricordiamolo, era lo scolaro svantaggiato, che prima di entrare in aula non aveva mai letto un libro in vita sua e in famiglia si esprimeva in dialetto, contrapposto a Pierino, che invece conosceva tante parole, era andato a teatro, aveva ascoltato le favole che la madre gli raccontava la sera per prepararlo al sonno (una trasfigurazione dello stesso Lorenzo): i due allievi vanno di fronte alla maestra e recitano (non uso a caso questo verbo) la medesima lezione. E lei cosa s’inventa? Mette la sufficienza a tutt’e due. Cioè fa le parti uguali fra diseguali, commettendo così l’ingiustizia maggiore. Valuta il traguardo raggiunto da entrambi e non la stazione di partenza di ciascuno: se l’avesse fatto, a Pierino avrebbe dovuto assegnare il sei, a Gianni l’otto.
Rispetto ad allora non è cambiato niente. Anzi forse la situazione è peggiorata. Faccio un solo esempio. Una volta Abdel, adolescente egiziano iscritto a ragioneria, venne da me a lamentarsi perché la sua insegnante gli aveva messo un brutto voto in storia. Gli chiesi quale fosse stato il contenuto dell’interrogazione. “Il Risorgimento”, mi rispose. “Da pagina 122 a pagina 153 del manuale”, aggiunse. “Te l’ha spiegato?” “Sì, come a tutti gli altri. Ho provato a leggerlo ma non ci ho capito niente.” “Vieni, ripassiamolo insieme.” “Sì, professore. Ma prima ho bisogno di sapere una cosa.” “Certo, Abdel, dimmi pure.” “Cos’è il Piemonte?” L’avrei abbracciato ma per pudore mi sono trattenuto.
Don Lorenzo Milani è stato davvero l’uomo del futuro perché la rivoluzione l’aveva fatta innanzitutto dentro se stesso, prima ancora che fuori. Era nato il 27 maggio 1923 a Firenze in via Principe Eugenio 9, ora via Antonio Gramsci, 25 (potenza dei nomi!). Sin da piccolo, nella tenuta di Montespertoli “La Gigliola”, dopo essere diventato amico dei figli dei contadini, avrebbe voluto che anch’essi potessero mangiare pane, burro e marmellata, come facevano lui, il fratello Adriano e la sorella Elena, ma il fattore, alle strette dipendenze della famiglia Milani, glielo impediva ammonendolo: “Tu non ti puoi mischiare con loro.” “Perché?” “Tu sei il signorino”.
Queste cose ti restano dentro e non si tolgono più. Ecco la ragione per cui tutti quelli che si avvicinavano a Barbiana, specie se aristocratici o borghesi, restavano scottati. Anna Maria Ortese, andandolo a trovare, lo spiegò meglio di chiunque altro: «L’impressione che dava, malgrado la bontà del viso, un po’ attento, ma solo un poco, e fermo come niente lo potesse abbassare, era di disprezzo. Non per me, e per nessuno in particolare, ma per qualcosa che a me e a molti altri era ignoto».
Stiamo parlando di un individuo speciale, inclassificabile, uno dei grandi testimoni del Novecento, morto a 44 anni di leucemia, con sentenza di condanna per apologia di reato (obiezione di coscienza), passata in giudicato, quindi estinta per la morte del reo. Sacerdote (lo sottolineo col pennarello rosso perché se lui, figlio di madre ebrea, Alice Weiss, che aveva studiato inglese con James Joyce a Trieste, non fosse entrato nel 1943, in piena guerra, al seminario del Cestello, in riva all’Arno, niente di quello che è successo sarebbe accaduto); profeta (in quanto vide ciò che noi ancora stentiamo a comprendere); maestro (pronto a spezzare per tutti il pane dell’istruzione uscendo dalla possibile atrofia dell’intellettuale accademico) e scrittore, seppure sotto mentite spoglie, peraltro epistolare, cioè nel solco più puro della letteratura italiana, se pensiamo a Francesco Petrarca, Caterina da Siena e Ugo Foscolo. Uno che scrive solo se ha davanti un interlocutore. Con una differenza essenziale: don Lorenzo non ricopiava mai in bella. Scriveva e viveva di getto: a fondo perduto, credendo nel valore di ciò che faceva a prescindere dal risultato che avrebbe ottenuto.
Allora, ragazzo: vuoi sapere cosa vuol dire, oggi come ieri, essere pacifisti? Leggi La lettera ai giudici: “Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia…e siamo andati…in cerca d’una ‘guerra giusta’. D’una guerra cioè che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata.” Hai bisogno di una bibliografia al riguardo? “Il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere al pilota di Hiroshima”. Vuoi sapere cos’è l’opera d’arte? “Una mano tesa al nemico perché cambi.” E chi dovrebbe essere il vero insegnante? “Il sapere serve solo per darlo. Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”.
Ogni sua frase, scaturita dal rapporto concreto coi ragazzi, veniva legittimata dall’esperienza, non risultava quindi sterile e vana. Viceversa, tutte le sue azioni erano illuminate dal pensiero, per questo non furono mai istintive, cieche, vuote, sorde. Don Milani, sia chiaro, non si sarebbe mai accontentato di una semplice giustizia sociale. Altrimenti non capiremmo la lettera a Pipetta, il compagno comunista: nel momento in cui il priore dichiara che sarà al suo fianco per abbattere insieme le cancellate del ricco, annuncia il proprio tradimento perché quando il compagno prenderà il potere, lui tornerà nella casa piovosa e puzzolente che era stata dell’operaio a pregare Gesù Crocifisso. Don Lorenzo, nella sequela del giovane Nazareno, continuava a scendere da Cafarnao verso il lago di Tiberiade, ai suoi tempi le sponde da raggiungere erano le sezioni del Pci di Calenzano, lì incrociava gli sguardi dei nuovi Simon Pietro. Ai quali, prima ancora della fede, bisognava restituire la parola. E con questa la dignità. Ecco perché “una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose.” Per capire fino a che punto don Milani, santificato dal presente centenario, sia rimasto inascoltato basta scorrere gli indici statistici dei ragazzi che scappano dall’aula e pensare alla scuola che abbiamo adesso, intitolata al Merito. Incredibilmente dobbiamo ancora lottare per affermare il principio che il priore ci ha insegnato, secondo il quale non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti. Vale anche il contrario.