Il libro
“Caccia allo Strega”, corpo a corpo tra il critico e la letteratura: il libro di Gianluigi Simonetti
Cultura - di Filippo La Porta
Non è vero che la critica letteraria è morta. Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario (Nottetempo) di Gianluigi Simonetti è la dimostrazione del contrario. Attraverso una riflessione sul Premio Strega, nato nel 1947, il più prestigioso dei premi dedicati alla narrativa, ci offre una mappa accurata, equilibrata e tendenziosa, delle patrie lettere degli ultimi 20 anni. Mode, correnti, tendenze, tutto viene passato al setaccio di uno sguardo critico minuzioso e perfidamente acuminato. Ce n’è per tutti. Subito qualche prelievo particolarmente tagliente, a proposito di scrittori accomunati per il critico da “una lingua piatta e sintatticamente disossata, che cerca affannosamente di accendersi in immagini icastiche, ma scivola su metafore morte (‘mi si spaccò il cuore’), o fuori fuoco (cosa sono gli ‘aloni di pioggia’?)”. Queste ultime citazioni sono prese da Rossella Postorino. A proposito di Scurati: “il compendio giornalistico, il prelievo da Wikipedia, il tono da divulgatore e la documentalità esibita si alternano a un altrettanto esibito estetismo, con pretese iperletterarie: il dannunzianesimo più trito, condannato sul piano dei contenuti espliciti, viene inconsciamente riabilitato sul piano dello stile”.
Poi su Mazzantini, la cui “letterarietà ostentata e a tratti enfatica, mista a strane sciatterie formali, risuona – insieme alla miscela di verismo e melodramma, e all’attrazione irresistibile per personaggi di poetici outsider – nelle pagine meno riuscite di Mario Desiati, o nel romanzo d’esordio di Silvia Avallone”. O su Giordano: “L’energia che il romanzo innegabilmente possiede non risiede evidentemente nel lavoro sul linguaggio, o nella qualità della scrittura, che paga una coabitazione impossibile tra semplicità sintattica di fondo e improvvise impennate metaforico culturaliste..!”. Infine l’affondo da autentico moralista: “Il prezzo da pagare per piacere a molti consiste, per Veronica Raimo e Desiati, nel fermarsi narrativamente un attimo prima di affrontare il nucleo più profondo, sgradevole e però sincero della propria vocazione: il desiderio di essere visti come individui e riconosciuti come adulti (e come scrittori?)”. Migliore trattamento è riservato a Siti e a Trevi, anche se in Resistere non serve a niente il “consueto, difficile progetto formale di Siti – con la sua proliferazione di lingue, stili e livelli – si camuffa da ‘narrazione convenzionale’ e si addomestica un poco.”
Peccato solo che Simonetti non abbia scelto come test per la sua disamina i romanzi – vincitori dello Strega – di Lagioia e Albinati. Non sapremo mai se per lui rientrerebbero nel “nobile intrattenimento”, una categoria critica oggi centrale. Il corpo a corpo con i testi è micidiale: Simonetti ne analizza puntualmente retoriche narrative, scelte lessicali, modalità sintattiche, incongruenze, tic stilistici. Ogni pagina è disseminata di definizioni epigrammatiche, di invenzioni critiche felici, di formule lapidarie: “un collage di spunti alla moda, assemblato sperando che la quantità surroghi la qualità. Tutto narrativamente molto saturo, quindi; e invece tutto molto spoglio e scarno sul piano della scrittura, che è un ottimo esempio dell’italiano scritto ma non letterario che sta colonizzando la nostra narrativa” (su un romanzo di Alessandra Carati). Non c’è giudizio che non venga argomentato meticolosamente, con esempi e ragionamenti ad hoc.
Una sola obiezione. Questo libro poteva essere uscito anche 50 anni fa (ovviamente citando altri scrittori): Simonetti distribuisce con sovrana disinvoltura giudizi e disegna gerarchie letterarie spesso condivisibili, ma come se nel frattempo non ci fosse stato un cataclisma culturale. O meglio, del cataclisma ha piena consapevolezza: “il destino di un libro appena uscito non dipende più dall’adesione della critica meticolosa e autorevole, ma semplicemente dalla possibilità che ‘se ne parli’ “, inducendo lo scrittore a trasformarsi in performer, in affabulatore abile nella comunicazione. E ancora: “La popolarità del libro finisce col coincidere con la legittimazione critica” (di qui anche la crescita di importanza dello Strega). Eppure di tutto ciò non sembra eccessivamente preoccupato.
Non ha un senso drammatico del possibile oblio del passato culturale. Ad esempio: di un autore dichiara che “non ha orecchio”. Va bene, però esattamente qui nasce il problema. L’ “orecchio” infatti presuppone una tradizione condivisa, un canone comune, una qualche autorevolezza riconosciuta a chi dispone di “orecchio”: tutte cose verosimilmente andate in pezzi. Ecco, Simonetti che si sforza di essere “obiettivo” e sobriamente descrittivo, sempre alla ricerca di “un punto di vista analitico, impersonale e rigoroso”, ci conferma che la critica è il critico, con le sue idiosincrasie e perfino con i suoi radicati pregiudizi. Il critico, in fondo, è solo un “lettore di professione” (Paolo Milano), un individuo cioè che legge più libri degli altri (e prima di loro), cercando di renderne conto ad altri individui mettendo in gioco se stesso e usando buoni argomenti.
La critica è una avventura personale. Anche il giudizio più argomentato implica un quoziente di arbitrio, un residuo non razionalizzabile. Un solo esempio: leggiamo qui che Donatella Di Pietrantonio è una Elsa Morante depotenziata poiché non avrebbe la “cattiveria” dell’autrice di Menzogna e sortilegio: a me sembra tutto il contrario, e anzi Di Pietrantonio in Borgo Sud mi appare spietata con la sua protagonista, che infatti tutti gli altri abbandonano in quanto tiepida, priva di vera passione vitale. Inoltre, esprimendo il proprio gusto personale – certo relativo, ma non abbiamo altro! – è impossibile evitare del tutto una qualche normatività: ad esempio un “modo di narrare semplice” o uno “stile semplice” non costituiscono in sé un difetto, come invece traspare spesso dal saggio.
Caccia allo Strega è quasi un esempio di autofiction della critica: Simonetti ha involontariamente creato un personaggio, se stesso – lettore curioso e appassionato – che resta la cosa più viva del libro. Le “conoscenze tecniche” servono, ma solo il deprecato “filtro soggettivo” ci fa penetrare nei testi. Crediamoci di più. La critica non è affatto morta, come scopriamo anche da queste pagine avvincenti, ma deve ritrovare le proprie ragioni argomentando con onestà e rivendicando per intero proprio la soggettività come principale strumento conoscitivo, senza inseguire una impersonalità e una obiettività impossibili: “Il piacere non è un criterio infallibile di guida, ma è il meno fallibile”(Auden).