Come avverte Seymour M. Lipset (Istituzioni, partiti, società civile, Bologna, 2009, p. 341), Gramsci ha avuto il merito, che per certi versi lo colloca sulla scia di Tocqueville, di aver intuito «la necessità di una densa società civile che emergesse dal capitalismo rendendo possibile la dialettica democratica». Allo Stato di diritto, con le sue tecniche formali e procedure garantiste, egli affianca una robusta società civile, dotata di aggregazioni, strutture, reti di iniziative. L’incastro dei tre poteri statuali, di per sé, non risolve il problema della certezza del diritto. Servono altri accorgimenti. E, nelle pieghe della società civile, sono indispensabili solidi organismi capaci di svolgere autonome funzioni politiche e culturali.
Meccanismi di protezione dall’abuso di potere e congegni per la tenuta del sistema politico richiedono una cultura civica, forme di partecipazione, l’organizzazione plurale dei soggetti. Il programma che Gramsci tratteggia è quello di «costruire nell’involucro della società politica una complessa e bene articolata società civile, in cui il singolo individuo si governi da sé, senza che perciò questo suo autogoverno entri in conflitto con la società politica» (Q, 1020). Al disegno liberale classico, che vedeva solo due poli, lo Stato astratto e l’individuo irrelato, Gramsci aggiunge una terza dimensione: una variegata società civile capace di presentarsi con le sue formazioni plurali operanti nella quotidianità. Riconoscendo un qualche debito verso Hegel, i Quaderni fissano nella “società civile articolata”, oltre che una garanzia reale rispetto all’arbitrio del potere, anche il campo della mediazione, che assicura una vita democratica consolidata proprio grazie al ponte di collegamento tra la sfera rappresentativa-generale e l’ambito economico-particolare.
Per primo fu Norberto Bobbio (Gramsci e la concezione della società civile, Feltrinelli, 1976) a rilevare una diversità rispetto alla marxiana società civile intesa come elemento di “causazione meccanica” della struttura economica. Al terreno delle relazioni materiali Gramsci non sostituisce, ma aggiunge, la considerazione di una multiforme società civile. Oltre alla trama delle classi, essa contiene infatti anche ambiti della soggettività che la rendono il luogo della mediazione, della cultura, degli apparati educativi, delle sovrastrutture di socializzazione.
Per un verso, la politica moderna richiede una sfera astratta e separata dallo Stato che trascende il corporativismo dei micro-interessi e scavalca il localismo dei piccoli territori. Per un altro, la tendenza a cucire relazioni spinge oltre l’atomismo di individui che vagano senza legami. Gramsci scorge nel moderno le dinamiche che inducono a riprodurre connessioni, istanze di associazione, processi di mobilitazione: «Il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile» (Q, 1346).
Da un lato, la società civile comprende la famiglia, il vicinato, le reti comunitarie o “rapporti sociali”. Dall’altro, in essa affiorano i momenti della pressione collettiva, i costumi, la moralità, le forme relazionali non sollecitate dal meccanismo sanzionatorio, i modi di pensare, le superstizioni. Una dinamica sociale ricca di esperienze e la diffusione di pratiche partecipative sono tratti caratteristici del moderno, che proprio nella società civile sviluppa il campo dell’egemonia politica e culturale. Società civile è anche l’individuo, ma colto nella sua fisionomia di socius che nelle esperienze mondane si aggrega, si organizza con altri in un gruppo.
Nella “struttura massiccia delle democrazie moderne” contano le ideologie e le “associazioni della vita civile”, le “trincee” e le “fortificazioni permanenti” rappresentate dalle “grandi organizzazioni popolari di tipo moderno”. Considerata la nuova configurazione sociale, che ospita formazioni economiche insieme ad organismi collettivi con una proiezione politica generale, è indispensabile per Gramsci estendere la nozione di sovrastruttura. Grazie ad una più ricca articolazione della società civile, che oltrepassa l’economico per accogliere anche le strutture del pluralismo organizzato, si creano le condizioni perché si diffondano molteplici soggettività. Di riflesso, la società politica si amplia, per cui non “è tutto lo Stato”. La statualità, che non è tutta racchiusa nello Stato-governo che amministra l’uso della forza legittima, si presenta anche sotto le insegne dello Stato-comunità, ossia sviluppa momenti di sintesi con i caratteri della società civile. Si affaccia definitivamente una dimensione pubblica allargata, che supera lo Stato-coercizione.
La tendenza del ‘900 è quella di ridimensionare la centralità direttiva dello Stato quale entità che ha il monopolio delle funzioni pubbliche, per definire una società politica come realtà più inclusiva rispetto alla mera statualità e aperta ai mondi vitali della società civile (sindacati, partiti, associazioni). Il quadro concettuale abbozzato da Gramsci appare come “mediato da due tipi di organizzazione sociale: a) dalla società civile, cioè dall’insieme di organizzazioni private della società, b) dallo Stato” (Q, 476). La società civile, più che una semplice somma di individui, indica una sfera caratterizzata da organismi strutturati che si rapportano l’uno con l’altro e tutti, nel loro insieme, con il momento della statualità.
Questa significativa estensione delle figure espressive di politicità, che oramai scavalcano lo Stato, dimostra che le formazioni sociali e i movimenti d’opinione, uniti ai rapporti di forza reali, incidono sull’effettiva dislocazione del potere. La crescita effettiva della capacità auto-organizzativa della società civile e la maturazione ad ogni livello di istanze soggettive in grado di influire sui processi collettivi non vengono considerate da Gramsci in alternativa alla sfera politica, dove operano partiti e organi istituzionali, ma come componenti essenziali di un potere responsabile che non travalichi rispetto ai compiti direttivi e integrativi riconosciuti dalle forme giuridiche moderne.
Su questa base affiorano i limiti ideologici delle teorie liberali, che, in nome di una statica separazione tra Stato e società, prospettano la figura dello Stato minimo, il quale monopolizza i beni pubblici puri e affida al mercato la cura dell’interesse particolare. Le sue attribuzioni, annota Gramsci, si contraggono sino a configurare “uno Stato le cui funzioni sono limitate alla tutela dell’ordine pubblico e del rispetto delle leggi. Non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che poi non è mai esistito altro che, come ipotesi-limite, sulla carta) la direzione dello sviluppo storico appartiene alle forze private, alla società civile, che è anch’essa «Stato», anzi è lo Stato stesso” (Q, 2302).
Nei teorici liberali la distinzione tra Stato e società (ridotta a spazio immateriale degli scambi) perde rigore analitico e diventa una maschera dell’ideologia. La rivendicazione di una distanza tra pubblico e privato, in nome dell’autonomia del calcolo economico, è anch’essa il risultato di una soluzione politica che fissa una particolare configurazione dei rapporti tra società e Stato, governo e attività economica. Anche il liberismo, che restituisce iniziativa alle forze private, invoca una decisione politica, al pari delle politiche pubbliche di regolazione che accorciano il divario tra Stato e società. Nelle dinamiche del ‘900 affiora un impasto di interessi economici e regole giuridiche per cui, entro certi versi, “società politica e società civile sono una stessa cosa” (Q, 460).
Riconosciuto questo processo di integrazione tra pubblico e privato, Gramsci non accetta però la lettura proposta da Gentile, secondo cui è ormai un fatto storicamente realizzato l’unità tra società e Stato dato che quest’ultimo rappresenta l’intero. Alla tendenza che intreccia politica ed economia il teorico sardo contrappone una contestuale richiesta di differenziazione, per cui, parlando di Stato, bisogna “distinguere tra società civile e società politica, tra dittatura ed egemonia” (Q, 1425). Non è possibile esaltare alla maniera di Gentile la ritrovata osmosi (sostanziale, di stampo etico-politico) tra società e Stato, perché gli assetti materiali continuano ad operare secondo la logica dell’accumulazione e le forme del potere registrano rigide esclusioni del pluralismo. Proprio il ricorso a misure coattive per l’esercizio della forza rivela l’assenza di ogni effettiva ricomposizione tra le due sfere. La demarcazione tra dittatura ed egemonia è l’anello mancante della filosofia politica di Gentile, che non offre una soluzione convincente ai dilemmi della rappresentanza dinanzi alle trasformazioni dell’epoca.
Il problema degli istituti rappresentativi e la funzione della società civile sono invece al centro della riflessione gramsciana. Nei regimi dove assenti risultano i filtri e le dense articolazioni del pluralismo, proprio la mancanza di una mediazione della società civile accentua i ritrovati del populismo autoritario capace di sedurre individui atomizzati. La capacità di resistenza del sistema democratico dinanzi all’impatto della crisi economica, del disagio sociale, delle manifestazioni di piazza e del ribellismo polimorfo dipende anche dalla costruzione di reti connettive, credenze comuni, strutture che conservano l’ordine sociale anche senza il diretto intervento del momento coercitivo. Privi di una fitta trama di soggetti della mediazione, collocati tra Stato e società, i regimi politici di massa non si consolidano. Le gracili istituzioni di governo liberale, ancorate a un quadro parlamentare statico e alle scorciatoie del trasformismo, si presentano come entità evanescenti, sprovviste di anticorpi ed esposte a miti distruttivi o seduzioni cesaristiche.
Anche le forze del cambiamento non possono trascurare la funzione costruttiva dei corpi intermedi. Senza il pluralismo organizzato di una società civile vertebrata, proliferano sedimentazioni spontaneistiche, pratiche unilaterali di rivolta sognate dal sindacalismo rivoluzionario, suggestioni antipolitiche. Gramsci è ben consapevole che, quando saltano i soggetti della mediazione politica, può prevalere la soluzione carismatica, l’elemento teatrale, il mito della decisione fulminea che sospende i riti della rappresentanza e costringe alla resa.
(3. Continua)