Una destra liberale potrebbe fare un grande discorso liberale sulle tasse e sull’evasione. Un discorso che legittimamente la sinistra avverserebbe, ma che non potrebbe essere liquidato al rango della pretesa padronale che fa salvo il profitto anti-sociale e trascura i bisognosi. Una destra liberale, per esempio, potrebbe spiegare che le tasse non sono affatto “bellissime”, come invece proclamava un illustre banchiere progressista: sono un male necessario, mitigato tuttavia dal “ritorno” in favore di tutti costituito dal finanziamento di servizi utili per tutti. Con il corollario che la responsabilità del potere pubblico risiede in primo luogo nel miglioramento di quei servizi, e nel controllare che il denaro destinato a remunerarli non sia dissipato: non nel promettere riduzioni fiscali perlopiù illusorie senza intervenire in nessun modo su quei servizi lasciati in derelizione.
Una destra liberale potrebbe spiegare che buona parte dell’evasione fiscale serve – patologicamente, ma serve – a finanziare attività produttive che altrimenti cesserebbero e alla produzione di ricchezza che altrimenti non sarebbe prodotta: ma farebbe capire che non si tratta di preservare quella condizione di illegalità trasformando in diritto acquisito l’evasione, trattandosi invece di intervenire sul sistema che in tanti casi la rende coatta. Una destra liberale spiegherebbe che sul lavoro dipendente si scarica in modo anche più ingiusto l’aggravio fiscale: e indicherebbe ai tartassati alla fonte che il loro nemico non è soltanto quello che invece evade le tasse, ma anche lo Stato che non investe in modo giusto e socialmente equilibrato nei servizi che giustificherebbero quell’espropriazione. Ma una destra che faccia questi discorsi non c’è, perché non c’è una destra liberale.
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C’è una destra autarchico-corporativa, che semplicemente dirige altrimenti e in altra direzione una fungibile istanza economico-populista. E infatti la Giorgia Meloni elettorale che addebita alla sinistra di essere “il braccio politico delle grandi concentrazioni e delle grandi multinazionali” (le piccole multinazionali so’ gajarde, evidentemente) quando arriva al governo non si giustappone con soluzioni liberali, ma con l’occhiolino ai commercianti sottoposti al “pizzo di Stato”: nell’idea, pressappoco, che a strozzare la vita delle botteghe e dei negozi italiani siano gli usurai di Bruxelles e che, come insegna il sodale sovranista, ripristinata l’autarchia delle nocciole e messa fuorilegge la vendita del kebab l’Italia finalmente fiorirà nelle sue capacità competitive. È la destra che inneggia al dovere aziendale di impiegare manodopera locale (quella straniera va bene, ma nelle piantagioni schiaviste), senza essere nemmeno sfiorata dal sospetto che né la produzione né il gettito fiscale si irrobustiscono in base alla selezione etnica del contribuente. È insomma la destra che anche in economia e sulle tasse, come altrove, sembra illiberale: e invece lo è.