La visita della premier
Meloni dimentica la guerra d’Etiopia e lo sterminio di 2.000 sacerdoti
Editoriali - di Guido Neppi Modona

Il 14 e il 15 dello scorso mese di aprile la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è recata in visita ufficiale nella Repubblica Federale Democratica di Etiopia, ove ha avuto un primo incontro all’aeroporto di Addis Abeba con l’omologo primo ministro Abiy Ahhmed. In tale occasione ha dichiarato che l’Etiopia è un “paese con il quale l’Italia vanta storiche relazioni che io intendo rafforzare ulteriormente”; fonti italiane hanno insistito sui “legami storici e solidi tra i due Paesi”.
In realtà le storiche relazioni e gli storici legami con l’Etiopia non sono sempre stati contrassegnati da rapporti di amicizia e di collaborazione ai fini dello sviluppo e del benessere del Paese. Negli anni Trenta del secolo scorso l’Etiopia è stata oggetto di una sanguinosa e spietata guerra di conquista condotta dall’esercito dell’Italia fascista e dagli ex squadristi e picchiatori della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Ci sono voluti sette mesi prima che il generale Badoglio potesse trionfalmente annunciare la definitiva sconfitta dell’Etiopia, ma la resistenza degli etiopi era stata vinta solo grazie all’impiego generalizzato di gas tossici asfissianti e ustionanti, in particolare l’iprite, già usata dai tedeschi nella prima guerra mondiale e poi espressamente vietata dalla Convenzione di Ginevra del 1926.
Il ricorso ai gas tossici veniva autorizzato di volta in volta dallo stesso Mussolini e ne erano vittime anche i civili. Gli aerei italiani lanciavano bombe di iprite di oltre due quintali che esplodevano a circa 250 metri dal suolo creando una pioggia mortale che bruciava e uccideva dopo ore di agonia la popolazione colpita, nomadi o seminomadi, anche donne, anziani e bambini che si spostavano insieme al bestiame, cammelli, pecore e capre. Si è calcolato che tra bombe sganciate dagli aerei e proiettili dell’artiglieria il territorio dell’Etiopia era stato irrorato da 350 tonnellate di iprite e di altri gas letali.
Al riguardo il maresciallo Badoglio aveva manifestato compiacimento per l’efficacia dell’impiego dell’iprite nel diffondere tra la popolazione un clima di vero e proprio terrore. La Croce Rossa Internazionale aveva denunciato la brutalità di queste aggressioni e ne era conseguita la condanna dell’Italia da parte della Società delle Nazioni e l’applicazione di sanzioni economiche, poi definite dal regime come “le inique sanzioni”.
Un posto a sé merita l’eccidio dei religiosi cristiani del monastero di Debre Libanos, uno dei simboli della Chiesa nazionale etiope: sospettati di essere ostili all’occupazione italiana e di organizzare complotti, nel maggio del 1937 circa 2000 religiosi furono assassinati dall’esercito italiano. Alla base delle “storiche relazioni” con l’Etiopia sta dunque una feroce guerra di conquista coloniale, allora mistificata come missione civilizzatrice di popolazioni barbare e selvagge. Per almeno un cinquantennio dopo il definitivo crollo del regime fascista questa realtà è rimasta coperta da un pesante velo di oblio. Tra i primi a descriverla è stato nel 1976 Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale (testo poi sviluppato in successive edizioni e volumi), ma la divulgazione delle atrocità commesse in Etiopia ha a lungo incontrato forti ostilità e scarsa diffusione, così come è avvenuto per quanto riguarda la presenza italiana in Libia.
L’incontro con il primo ministro dell’Etiopia avrebbe potuto essere una buona occasione per ribadire la più ferma condanna delle violenze perpetrate dal regime fascista contro la popolazione di quel paese. Ma il caso vuole che si presenti un’ulteriore possibilità: ai primi di ottobre di quest’anno si svolgerà il summit intergovernativo biennale Italia-Africa, e quella potrebbe essere la sede per richiamare alla memoria la realtà storica dei rapporti dell’Italia con l’Etiopia durante il fascismo.