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Carcere di Turi, dove Antonio Gramsci trascorse la sua vita da recluso

Carcere di Turi, dove Antonio Gramsci trascorse la sua vita da recluso

Nonostante l’immunità parlamentare, l’otto novembre del 1926 Antonio Gramsci venne fermato e arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista.

Tre giorni prima erano stati varati alcuni provvedimenti «per la sicurezza e la difesa dello Stato», ulteriore tappa delle norme «fascistissime» progressivamente approvate dal dicembre 1925 e che avevano dato forma allo Stato totalitario: sciolti tutti i partiti e le associazioni che si opponevano al regime; soppressi tutti i giornali d’opposizione; abolito il diritto di sciopero, istituito il confino di polizia per i dissidenti; introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei Reali e del Duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo stesso Mussolini assunse l’interim dell’Interno.

I comunisti si erano fatti trovare largamente impreparati di fronte alla svolta autoritaria tanto che alla fine del 1926 circa un terzo degli effettivi del partito erano in carcere. Condotto in un primo tempo nella prigione romana di Regina Coeli, Gramsci fu assegnato al confino di Ustica ma subito poi trasferito nel carcere di san Vittore a Milano per l’istruttoria. Nel maggio del 1928 fu condannato nel corso del maxi processo al gruppo dirigente del Pcd’I a una pena di reclusione poco superiore a vent’anni.

Assegnato al carcere di Portolongone fu trasferito per ragioni di salute nella prigione di Turi, in Puglia. In seguito ai provvedimenti di amnistia e di condono per il decennale fascista, la sua condanna fu ridotta a 12 anni e 4 mesi. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo diverse richieste nel 1933 viene trasferito in una clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà condizionale, che al contrario di oggi non prevedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Nei mesi successivi si trasferisce a Roma, presso la clinica Quisisana, per un lungo periodo di degenza. Riacquisita la piena libertà nell’aprile 1937, muore il 27 dello stesso mese a causa di un’emorragia cerebrale.

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Questo articolo di Domenico Zucaro è apparso sul numero dell’Unità del 27 aprile 1950

Turi aprile – Un po’ appartata e quasi isolata dai giardini pubblici se ne sta la casa penale di Turi, dove per più di cinque anni rimase «ristretto» Antonio Gramsci.

[…]

Indietro nel tempo
Sono passate le nove del mattino. E’ l’ora migliore per la visita. Due guardie carcerarie mi fanno entrare. Avverti la presenza di un qualche cosa che domina su tutta la vita di un penitenziario, dal momento che ti senti chiudere il grosso portone alle spalle. Allora non ti rimane che seguire i movimenti dell’agente-portinaio, numero uno, poi del secondo, di tutti gli altri infine. Entriamo cosi nel regno del «Regolamento». Sfoglio il grosso libro matricola. Giro le pagine e si va indietro nel tempo: a me interessa il numero 7047 che era quello di Antonio Gramsci durante la detenzione in questa casa penale.

[…]

Una dura odissea
Nello stesso imbarazzo mi sono trovato quando ho preso contatto con altre cose che riguardano direttamente Gramsci e sono ancora qui vive. Allora da tutto l’insieme ho avuto una nozione delle sue sofferenze, della condizione in cui per 5 anni e 4 mesi ha vissuto Gramsci in questo penitenziario.

Antonio Gramsci pare fosse stato assegnato in un primo tempo al penitenziario di Portolongone per scontare la pena di 20 anni e 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Alla richiesta del pm Isgrò, secondo il quale il cervello di Gramsci per vent’anni non avrebbe dovuto funzionare, il Presidente del Tribunale Speciale, Generale Saporiti, aderì in pieno ed aggiunse una pena accessoria di L. 6.200 di mutui e 3 anni di vigilanza, come risulta dal foglio matricolare.

Invece, date le sue condizioni di salute, Gramsci ebbe per destinazione Turi. Così il 19 luglio 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi, condannati per appropriazione indebita e falso, vi giunse dopo una traduzione durata più di 15 giorni. Questo trattamento indiscriminato metteva Gramsci sullo stesso piano dei detenuti comuni mentre ai detenuti politici in condizione di salute precaria spettava la traduzione diretta. A Gramsci fu riservato sempre il trattamento peggiore nei suoi trasferimenti da un carcere all’altro: lunghe soste su binari morti, viaggi su carri bestiame in pieno inverno e cosi via.

Soltanto nel trasferimento da Turi a Civitavecchia gli fu consentila la traduzione più comoda. Difatti sul foglio matricolare, il 19 Novembre 1933 è la data di trasferimento, e si sa che fu preso in forza lo stesso giorno dalla Casa Penale di Civitavecchia. Allora Gramsci era già in condizioni di salute disperate.

Il carcere di Turi nella classificazione degli stabilimenti di pena viene considerato come casa di cura per detenuti infermi. Ma non vedo come possa in buona fede essere sostenuta una tale distinzione, non so se e sufficiente per questo una misera infermeria sprovvista quasi di ogni specie di attrezzatura e la presenza saltuaria di un medico.

Il compaesano di Gramsci
I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso dai «comuni», a mezzo di un doppio muro, tra cui corre una specie di camminamento. Qui Gramsci veniva nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. E forse anche lui aspettava ansioso «l’ora dell’aria», come sempre hanno fatto e fanno i detenuti. Di questi ce n’è ancora uno. E’ l’ergastolano Faedda che vedeva tutti i giorni Gramsci. Quest’uomo ora ha 73 anni ed è nativo di Bazanta, paese vicino ad Ales, luogo di nascita di Gramsci.

Faedda nel 1928 è stato lo scopino del Teatro dei «politici» – : cioè faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste, ccc. Mi dice che allora per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Ma tutti i «politici» gli regalavano sempre qualcosa in natura. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci lo trovava già al lavoro e spesso faceva con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Se poi era di buon umore, ben volentieri Gramsci scherzava con lui — Mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva: «Coraggio Faedda, presto andremo via da qui» — racconta Faedda — Non gli chiedevo nulla, ma lui mi regalava o una pagnotta di pane o del vino o del formaggio. Una volta mi diede due sigari.

I ricordi del secondino
La guardia scelta Vito Semerano — anche lui ha conosciuto Gramsci — presta servizio in questo penitenziario da 23 anni; attore faceva il turno nel braccio «politici», al primo pia-no. Forse Semerano è stato l’uomo che ha avuto il maggior rispetto in questo luogo per Gramsci. E questa considerazione mi viene suggerita da un particolare che Semerano mi racconta.

Ci troviamo davanti alla porta della cella di Gramsci e lui mi parla delle sofferenze negli ultimi tempi di Gramsci per il suo stato grave di salute. Specialmente il sistema nervoso doveva essere molto scosso e non poteva dormire. So che per regolamento la luce nell’interno della cella deve rimanere sempre accesa durante lo notte. — A una certa ora la spegnevo — mi dice Semerano. Era lui infatti di sorveglianza durante la notte; quando poi era di turno durante il giorno spesso entrava in cella e trovava Gramsci al tavolo di lavoro.

Attività instancabile
– Copiava sempre dai libri — mi dice — e mi chiederà i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava ed io lo passavo al direttore. Una volta bollale le pagine, veniva depositato in magazzino. Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore.

Chiedo, a Semerano quanti quaderni consumasse in un mese; lui ricorda che arrivava a portargliene anche una quindicina. Gli dico che adesso quei quaderni sono già usciti in parte stampati in diversi volumi e comprendono tutta l’opera che Gramsci ha scritto in questa cella. Semerano mi sorride e mi fa appena sentire la sua voce: – Avevo compreso che erano molto importanti! –. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.

La lapide di marmo murata sulla facciata dei penitenziario serve soltanto per dare una nozione al pellegrino di passaggio, perché la maggior parte dei turesi ha nella memoria la propria immagine di Gramsci. Molti ricordano i tempi in cui Tania, cognata del recluso, aveva preso alloggio nel piccolo albergo Lauretta. Allora, per diverso tempo, e alle volte anche per più di un mese, mi dicono, la s’incontrava sovente nelle strade e alcuni osavano interrogarla con gli occhi, altri invece o le facevano visita o la invitavano a casa, perché Tania era sempre sola. Doveva essere anche vigilata dalla polizia, ma questo pericolo per i turesi contava fino a un certo punto di fronte ai doveri dell’ospitalità. — Non si poteva lasciare una donna sola nel dolore — mi dice qualcuno.

Forse allora nessuno di qui aveva mai visto Gramsci, eppure non si faceva che parlare di lui. Al centro di ogni commento stava il fatto importante dell’epoca; si tratta del rifiuto di Gramsci a inoltrare domanda di grazia. Ma già da come aveva impostata e poi portata a conclusione la sua ragione di essere rapporto al mondo e agli uomini, Gramsci era entrato nell’immagine popolare con tutti i caratteri del simbolo: Maestro, Liberatore, Martire, e così è scritto anche sulla lapide di marmo all’ingresso. Sulla lapide è scritto anche: – In questo carcere — visse in prigionia — Antonio Gramsci — Maestro Liberatore Martire — che ai carnefici stolti — annunciò la rovina — alla Patria morente — la salvazione — al popolo lavoratole la vittoria.