I Quaderni 100 anni dopo
Antonio Gramsci era contro i governi tecnici, sono la resa della politica
L’allestimento di larghe coalizioni accresce la vulnerabilità di un sistema in preda alle forti contestazioni che vengono alimentate enfatizzando l’estraneità del ceto politico rispetto all’opinione pubblica tradita.
Editoriali - di Michele Prospero
I governi tecnici sono un ritrovato specificamente italiano, anche se non mancano delle occasionali imitazioni in giro per l’Europa. Per uscire dalle crisi determinate da situazioni emergenziali, affrontare congiunture assai impegnative che richiedono sacrifici nel campo della politica economica e finanziaria, o anche gestire una qualche questione “morale” scoppiata all’improvviso, sono stati inventati i governi di larghe intese o di unità nazionale. La convinzione di Gramsci è che l’efficacia di questi rimedi di carattere eccezionale è alquanto dubbia.
In frangenti difficili si diffonde un attivismo ansiogeno volto a “formare il governo per salvare il paese”. Le forze politiche (in sofferenza per via delle “crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti”), le fazioni, ma anche le singole personalità, considerata la “moltiplicazione dei partiti parlamentari”, danno luogo a “contrattazioni cavillose e minuziose” per assicurare la governabilità.
L’allestimento di larghe coalizioni, con l’invenzione di soluzioni ibride sospese tra politica e tecnica, accresce la vulnerabilità di un sistema in fibrillazione, in preda alle forti contestazioni che vengono alimentate enfatizzando l’estraneità del ceto politico rispetto all’opinione pubblica tradita. I partiti sono in difficoltà dinanzi alla scarsa possibilità degli elettori di distinguere ancora tra le forze in campo, e in questo clima di ammucchiata prosperano movimenti antipolitici e di protesta.
L’antipolitica non è la causa della degenerazione e del collasso della “funzione egemonica”, piuttosto, intesa come mobilitazione irregolare, essa ricava la sua forza effettiva dalla crisi della capacità rappresentativa dei partiti e dei soggetti sociali. Gramsci invita perciò a riflettere su “come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica”.
Quando la normale conflittualità democratica è sospesa, in vista di una convergenza occasionale ritenuta la sola in grado di salvare il paese dalla catastrofe, diminuiscono le capacità di risposta della politica e, al posto di quest’ultima, emergono altri poteri non legittimati dal voto. I partiti, affidando il governo delle situazioni critiche ad agenti esterni, smarriscono la propria funzione e, ritirandosi dalla cabina di comando proprio nel cuore dell’emergenza, si presentano come degli organismi surrogabili perché inessenziali. Soprattutto il ricorso a soluzioni tecniche, maturate al di fuori della contesa elettorale, accentua la crisi di rappresentanza e lascia deperire il senso della missione delle forze politiche.
Nella crisi della funzione egemonica delle classi dirigenti, che si verifica in frangenti storici particolari, emergono gruppi eterogenei i quali intendono sostituire i soggetti organizzati cavalcando la regressione della politica dal piano dell’“egemonia” e della “catarsi” culturale a quello del mero fatto economico, dell’interesse corporativo statico. I ceti politici non scompaiono; accade semplicemente che “al partito politico e al sindacato economico «moderni» si «preferiscono» forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo «malavita»; quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari sia legate alle classi alte” (Q, 815).
L’antipolitica è una manifestazione ricorrente nella storia d’Italia: contro la politica organizzata e il parlamentarismo, si sollevano periodicamente ondate di delegittimazione che invocano trasparenza e riprovazione di ogni compromesso. Mentre declina la rilevanza del partito quale regista del governo parlamentare, caduto in discredito e aggredito da un uso demagogico della lotta alla “casta”, cresce la presa sociale degli organismi non maggioritari, cioè l’influenza di centri non misurati dal consenso elettorale, come la burocrazia, la finanza, i media.
Se i poteri tecnici denunciano la scarsa autorevolezza del ceto politico e la sua incapacità nel cogliere la complessità delle sfide epocali, le campagne di opinione che inneggiano all’“onestà” ricorrono all’esaltazione di una interpretazione moralistica della funzione pubblica che, dietro l’apparenza di una lotta senza quartiere contro la “corruzione”, in realtà rifiuta le regole della democrazia, le mediazioni, gli istituti del pluralismo.
Nell’indagine gramsciana sulle “cause della catastrofe”, emerge il ruolo di strutture che alimentano la fabbrica dell’“apoliticità irrequieta” della società civile e aggrediscono la forma politica con la riduzione dei vari schieramenti a scandalo, inciucio, cricca. Rispondendo al dialetto demagogico con la responsabilità dei governi a base tecnica, i partiti in declino accelerano la loro eutanasia e alimentano il fuoco della semplificazione antipolitica con cui proliferano le candidature più o meno carismatiche.
Gramsci è persuaso che il governo di grande coalizione, in tempi di dissoluzione sistemica che affiorano quando improvvisamente “l’apparato egemonico si sgretola”, non è in alcun modo “il più «solido baluardo» contro il cesarismo”. Espressione di consueti movimenti trasformistici, condotti all’insegna della prudente arte dell’assorbimento degli eterogenei soggetti barbarici visti come esemplari alieni da romanizzare, esso rappresenta “un grado iniziale di cesarismo”, non certo un argine alla dissoluzione egemonica in corso (Q, 1620).
Il profilo del capo, che si propone al pubblico con velleità magiche, non conta per le sue effettive capacità di direzione, la sua reale levatura di statista, le sue doti fuori dal comune. Per questo motivo anche indossando una maschera della tradizione popolare è possibile ascendere alla scrivania di Palazzo Chigi. Gramsci è chiaro al riguardo: “Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità «eroica»” (Q, 1195). Figure scialbe o puramente demagogiche sono agevolate nella loro scalata dalle facili denunce – spesso alimentate dalle politiche inerziali dei governi di unità nazionale – del fallimento dei partiti, che vengono dipinti come un corpaccione di eguali.
Le insidie contenute nelle fasi di larga coalizione si avvertono soprattutto in sistemi politici come quello italiano, nel quale spicca, a destra, la mancanza di “un vasto partito conservatore” capace di arginare le variegate forze antisistema “che negano in tronco tutta la civiltà moderna e boicottano lo Stato”. Il disarmo dei partiti, che rinunciano a rappresentare con creatività la sintesi tra classe e progettualità, spiana la strada agli stivali di un Cesare, il quale si impone recitando il copione della velocità, della disintermediazione, della decisione.
Per smontare la macchina seduttiva del capo carismatico, Gramsci sconsiglia di imitare le risorse simboliche e linguistiche dell’avversario. E insiste, piuttosto, sulla necessità di un paziente lavorio di ricostruzione del soggetto e delle forme della mediazione politica. Secondo il normale funzionamento del regime rappresentativo, in aula “uno degli indirizzi politici diventava «statale» in quanto il gruppo parlamentare del partito più forte diventava il «governo» o guidava il governo. Che, per la disgregazione parlamentare, i partiti siano divenuti incapaci di svolgere questo compito non ha annullato il compito stesso né ha mostrato una via nuova di soluzione: così anche per l’educazione e la messa in valore delle personalità” (Q, 1809).
La crisi del parlamentarismo e la decomposizione delle forze organizzate tradizionali, incapaci di progetto e di egemonia, fanno saltare gli equilibri della rappresentanza. Dinanzi all’erosione dell’ordine politico, è vana l’operazione di scimmiottare il nuovo che avanza: l’originale vince sempre sulle cattive imitazioni. Gramsci si concentra perciò sulla necessità di non rinunciare al governo parlamentare perché, anche se il modello è in crisi da quando i partiti sono allo sbando, l’incapacità di rappresentare nelle assemblee le differenze “non ha annullato il compito stesso”.
La ricerca di “vie nuove” non prevede la ricusa del parlamentarismo, che, nonostante i suoi acciacchi procedurali, rimane un modello politico più efficace di altre forme organizzative del potere pubblico. Le alternative alla democrazia parlamentare sono ben peggiori. Non solo in Germania, la pratica plebiscitaria dell’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica ha alimentato i miti romantici del sangue e della terra. Anche entro regimi non dissolti nel culto della persona, si pongono problemi di orientamento, controllo, limitazione delle masse.
È anche questa la ragione dell’ostilità di Gramsci alla “rivendicazione popolare elementare” che nelle Repubbliche spinge per “l’elezione a tempo del capo dello Stato” offrendo, però, solo “una soddisfazione illusoria” (Q, 752). In tempi di crisi del carattere rappresentativo delle liberaldemocrazie, e di irruzione di leader dal preteso tocco provvidenziale che si esibiscono in pubblico gridando che “la pacchia è finita”, le categorie di Gramsci tratteggiano una mappa concettuale che le culture democratiche devono recuperare per scongiurare la catastrofe degli ordinamenti costituzionali da anni sotto assedio.
(4. Continua)