La "rivoluzione"
Giustizia riparativa, superare il carcere come discarica sociale e limitarlo ai reati gravi
Invece di avviare una campagna per superare il carcere come discarica sociale e limitarlo ai reati gravi, ci si concentra sulle magnifiche sorti e progressive della giustizia ripartiva: una grande distrazione di massa
Editoriali - di Franco Corleone
Il contributo di Andrea Pugiotto “Le ragioni delle vittime e quelle del diritto”, pubblicato sull’Unità il 20 maggio, spinge a una riflessione seria rispetto a nuovi paradigmi che si stanno imponendo e che mettono a rischio la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale.
L’avvertimento di esordio rende bene la preoccupazione: “La memoria dei propri lutti e delle proprie ferite è del tutto personale. Per alcuni è un rapporto riappacificato, per altri è fonte di un rancore inestirpabile. Proprio in questi casi la voce delle vittime si salda con lo spirito del tempo dominato dal risentimento, che è il carburante del populismo penale”. Recentemente Tamar Pitch, con il suo libro Il malinteso della vittima, ha offerto nuovi materiali per uscire dal dominio del paradigma vittimario.
Nel 2019 come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Toscana organizzai un convegno dedicato alla rilettura del pensiero di Alessandro Margara, “Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione”, e nella sessione Moralità e diritto si confrontavano proprio Tamar Pitch e Andrea Pugiotto con le relazioni intitolate “il protagonismo della vittima” e “Pensare altrimenti il paradigma vittimario”.
Proprio una frase di Tamar Pitch aiuta a comprendere il groviglio concettuale che deve essere sciolto: “E tuttavia, rivolgersi alla logica e al linguaggio del penale per vedere riconosciute le proprie ragioni o addirittura la propria soggettività politica, eleva precisamente la giustizia penale, nazionale e internazionale, a soluzione principe di tutti i problemi, a scapito della politica. Ciò che si rischia è non solo un panpenalismo, ma anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima, laddove il processo penale non può che produrre delusione rispetto alla propria aspettativa di risarcimento narcisistico assoluto”.
Ho ripreso in mano il volume che raccoglie gli atti e che rimane una pietra su cui fondare qualsiasi ipotesi di riforma, grande o piccola, della concezione della pena e del carcere. Negli ultimi tempi, si ascoltano dotte disquisizioni sulla giustizia riparativa prossima a venire, che dovrebbe realizzare un mondo nuovo e una giustizia penale alternativa a quella che oggi conosciamo. Queste riflessioni mi sembrano rappresentare soltanto una distrazione di massa promossa proprio da coloro che dovrebbero essere protagonisti della contestazione della crisi che si aggrava.
Dimenticati i tredici morti dell’inizio della pandemia nel carcere di Modena, archiviati gli 84 suicidi nei penitenziari italiani dell’anno scorso, trascurati i tanti processi per tortura e violenze nel carcere, invece di avviare una campagna per superare il carcere come discarica sociale e limitarlo ai reati gravi, ci si concentra sulle magnifiche sorti e progressive che potrà produrre l’attuazione della giustizia ripartiva. Preliminarmente, mi viene da dire che meglio sarebbe usare il termine di giustizia restitutiva o rigenerativa, eliminando una connotazione di contrattazione e rafforzando il principio costituzionale della pena orientata alla risocializzazione. Meglio ancora sarebbe parlare di giustizia di riconciliazione o di ricucitura, sapendo che sarebbe destinata a pochi casi, ma importanti dal punto di vista simbolico.
Le commissioni per la verità e la riconciliazione, l’esempio più noto e efficace è quello del Sudafrica, hanno avuto valore per lo scopo di evitare un clima di vendette e di ricorso a guerre civili. Un esempio italiano di ricerca di dialogo tra protagonisti della lotta armata è testimoniato dal volume Il libro dell’incontro curato da Adolfo Ceretti e dagli incontri organizzati da Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. I decreti attuativi della riforma Cartabia sono attesi per fine giugno e l’esperimento della giustizia riparativa entrerà a pieno titolo nel processo penale ordinario con caratteri diversi dalla esperienza del minorile; infatti l’invito a tentare la mediazione spingerà il reo a valutare l’interesse personale attraverso la confessione e mettendo in imbarazzo la vittima.
L’accertamento della violazione della legge, che riguarda lo stato e la società, passerà in secondo piano rispetto a un rapporto di giustizia privata. Non sappiamo se questa dimensione inciderà sulla pena o sui possibili benefici, ma certamente la dimensione del pentimento e del perdono diverranno centrali e, nel caso di reati gravi, susciteranno notevoli perplessità. D’altronde, i casi di violazione della legge antidroga che rappresentano una percentuale altissima dei reati e degli ingressi in carcere, essendo reati senza vittima, resteranno fuori dal nuovo ambito e così molti reati bagatellari che saranno forse risolti con il ricorso all’istituto della Messa alla Prova (la cosiddetta MAP con un progetto che porta alla cancellazione del processo) e alla possibilità del giudice della cognizione di disporre direttamente sanzioni alternative.
Il rischio è che si produca tanto rumore per nulla, mettendo in campo uno stuolo di mediatori assunti con contratti precari da 29 fantomatici Centri privati della giustizia riparativa accreditati dalle Conferenze regionali presso le sedi di Corte d’Appello, creando doppioni, invece di rafforzare gli Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) che sono già carenti di operatori. Forse sarebbe opportuno pensare a un momento di discussione pubblica per mettere ordine nel catalogo delle sanzioni alternative e per cercare di evitare di produrre un conflitto tra gli ultimi e i penultimi. La giustizia già oggi discrimina per classe. Basti pensare che con uno stesso reato c’è chi può accedere alla MAP e chi va in galera ed è destinato a scontare la pena fino all’ultimo giorno in condizioni di sovraffollamento che trasformano il reo in vittima.
Mi viene in mente il pensiero di Aldo Moro, giovane giurista che suggeriva di cercare non tanto un diritto penale migliore ma qualcosa di meglio del diritto penale e che nelle Lezioni di filosofia del diritto auspicava la liberazione dal diritto come la più alta forma di libertà. Va anche ricordato che sempre Moro nelle lezioni sulla Funzione della pena tenute nel 1976 all’Università di Roma, due anni prima di essere assassinato, affermava la netta contrarietà alla pena di morte e soprattutto all’ergastolo in quanto la pena non può contraddire l’obiettivo della rieducazione prevista dalla Costituzione e ammoniva gli studenti: Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati.
Ma la considerazione più originale di Moro è quella per cui il delitto è legato alla libertà e quindi comporta la responsabilità, con l’attribuzione di una pena commisurata al reato e che non aggiunga sofferenza a quella della perdita della libertà. Probabilmente anche l’istituzione del giudice di pace rappresentò una occasione mancata, perché invece di scegliere una forma di giudice dell’equità se ne fece una caricatura del giudice ordinario.
In conclusione, mi preoccupa che la retorica della giustizia riparativa nasconda la sempre più grave condizione del carcere, senza educatori e senza direttori, in cui il diritto alla salute non è tutelato, l’alimentazione è affidata a imprese che non garantiscono qualità adeguata, in cui i diritti costituzionali come quello alla affettività sono violati e in cui il Regolamento del 2000 è disapplicato.
Ci sarebbe un modo di praticare la giustizia di comunità senza retorica: istituire le “Case di reintegrazione sociale” secondo la proposta di legge n. 1064 presentata alla Camera da Riccardo Magi, strutture di piccole dimensioni diffuse sul territorio per i detenuti con un fine pena inferiore ai dodici mesi e affidate alla direzione dei sindaci, con una vera prova di reinserimento sociale con tanti attori a partire dal volontariato. Una risposta a chi ha proposto provocatoriamente lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione, pilastro di un diritto che si richiami a Cesare Beccaria.