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Cpr, abusi e arbitrio: in cella finiscono anche badanti e operai

Cpr, abusi e arbitrio: in cella finiscono anche badanti e operai

Tanto il documentario Sulla loro pelle, vincitore del Premio Morrone per il giornalismo investigativo, che l’inchiesta di AltrEconomia “Rinchiusi e sedati” sull’abuso degli psicofarmaci nei CPR (centri per il rimpatrio) usciti nelle scorse settimane, ci restituiscono un quadro orribile di violenze e soprusi nei centri di “detenzione amministrativa” degli stranieri trattenuti per eseguire coattivamente l’espulsione dal territorio nazionale.

Per quanto pregevoli siano le sopraccitate inchieste, esse tuttavia svelano solo ciò di cui siamo già a conoscenza da tempo; mi sento di dire che ne siamo a conoscenza da almeno quindici o vent’anni, avendo il sottoscritto fatto parte della Commissione nominata dal Ministero dell’Interno (detta Commissione De Mistura dal nome dell’ambasciatore ONU che ne fu presidente) che, nel lontano 2007 produsse un rapporto che, pur con i molti limiti dovuti alla rigida natura di quell’organismo, fu severo nell’analisi di ciò che, tra innumerevoli reticenze, venne constatato nei luoghi della detenzione amministrativa, giungendo a conclusioni e proposte di riforma affatto scontate.

Sono decine i rapporti autorevoli sui CPR (tra i molti voglio solo ricordare Il libro nero sul CPR di Torino, pubblicato da ASGI nel giugno 2021) che hanno costellato il ventennio e più di esistenza di queste strutture che, secondo la migliore tradizione italica, hanno sovente cambiato nome, ma non natura, riproponendo gli stessi problemi di fondo. Il primo punto da cui partire per comprendere il problema è che il sistema del trattenimento nei CPR dello straniero respinto o espulso nella norma vigente rappresenta la regola e non l’eccezione, dal momento che quasi tutte le espulsioni sono eseguibili coattivamente.

La normativa non risponde dunque a criteri di proporzionalità e progressività, e ciò fa si che una misura così drastica come il trattenimento possa essere applicata ciecamente a chiunque non sia in regola con le norme sul soggiorno; in questo modo nella stessa gabbia (perché i CPR sono fatti di gabbie) si ritrovano a convivere un criminale di lungo corso con un operaio o una badante che vivono da dieci anni in Italia, incensurati ma, loro malgrado, con un permesso di soggiorno scaduto, prelevati per la strada in retate eseguite “per la nostra sicurezza” mentre chi attende gli sventurati a casa per cena perde di loro ogni notizia.

Solo a fine 2020, vent’anni dopo la nascita dei centri di detenzione amministrativa, è stato previsto, con il D.L.130/2020, che il trattenimento sia disposto con priorità per coloro che sono considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica o abbiano avuto condanne penali. Modifica assai modesta perché i criteri rimangono vaghi e la stessa norma irragionevolmente prevede la priorità nell’esecuzione del trattenimento nel caso il medesimo sventurato operaio o la badante “siano cittadini di Paesi terzi con i quali sono vigenti accordi di cooperazione o altre intese in materia di rimpatrio”.

Non intendo certo con ciò sostenere che i CPR vadano riservati alle persone socialmente pericolose, ma semmai intendo evidenziare un altro paradosso: le persone di cui discutiamo andrebbero identificate prima della fine della loro detenzione negli istituti penitenziari e non dovrebbero essere trattenute affatto nei CPR applicando a loro di fatto un nuovo periodo di pena, con folle sperpero di risorse pubbliche.

Nel quadro normativo attuale le modalità con cui è attuata la detenzione amministrativa, ovvero sono garantiti i diritti delle persone trattenute e sono disciplinate le procedure a cui attenersi nella gestione del trattenimento, non sono stabilite soltanto dalla legge, come invece esigerebbe l’articolo 13 della Costituzione trattandosi di limitazione della libertà personale, bensì sono devolute in larga parte a scarne norme regolamentari dal contenuto alquanto vacuo; un vuoto da sempre riempito da disposizioni amministrative discrezionali, ordini di servizio e persino da semplici convenzioni stipulate – a seguito di gare d’appalto – tra prefetture ed enti gestori, ovvero soggetti privati che quelle gare hanno vinto al massimo ribasso tagliando ulteriormente servizi già previsti con standard infimi; siamo di fronte a ciò che è stata correttamente definita dalla ricerca sociologica una privatizzazione della detenzione, con tutte le sue nefaste conseguenze.

In tutte le istituzioni totali (e i CPR lo sono senza alcun dubbio) è altissimo il rischio che si generi una spirale di abusi che diventano strutturali a causa della sproporzione tra il potere che l’istituzione, senza contrappesi e controlli reali, esercita sulla vita degli internati, e la concreta (im)possibilità per le persone rinchiuse di esercitare i loro diritti fondamentali. Lo sbilanciamento di potere all’interno dei CPR in tal modo creato da norme volutamente carenti o illegittime, l’esclusione di forme di monitoraggio indipendenti dei luoghi di trattenimento (l’amministrazione statale invece di rendere tali luoghi il più trasparenti possibile, conduce ovunque una indefessa battaglia per impedire l’accesso a tali luoghi ad associazioni ed enti diversi da quello cui è affidata la gestione del luogo), unitamente a un’informazione mediatica in genere povera di contenuti, costituiscono un insieme di fattori che compongono un quadro inquietante che investe tutti i CPR senza eccezioni; in quelli ubicati in aree periferiche o dove la società civile locale è più debole (come ad esempio nel caso di Gradisca d’Isonzo) la situazione può essere peggiore, ma nulla di più.

Come chiunque può comprendere anche senza avere competenze giuridiche, se e come espellere una persona straniera è una decisione che incide profondamente sulla sua libertà personale e dunque ogni situazione andrebbe valutata caso per caso bilanciando l’interesse pubblico (se ce ne è uno in concreto) ad allontanare lo straniero con la situazione e il percorso di vita in Italia realizzato da quella persona. Per essere dunque realmente conforme alla riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione dovrebbe spettare all’autorità giudiziaria ordinaria il potere di adottare o meno il provvedimento di allontanamento, su richiesta motivata dell’autorità di pubblica sicurezza. (proposta già avanzata dalla Commissione De Mistura 15 anni fa, ma caduta nel vuoto più assoluto).

E’ francamente inconcepibile che si continui con l’attuale approccio che prevede una semplice convalida della decisione di trattenimento nel CPR attribuita al giudice di pace, che si traduce quasi sempre, salvo vi siano errori macroscopici nel provvedimento di trattenimento, in una mera formalità della durata, per il 50% delle udienze di convalida, e per l’80% di quelle di proroga del trattenimento, di minuti cinque, compreso il tempo per la traduzione allo straniero, come evidenziato dal libro nero sul CPR di Torino (ma ovviamente ciò vale in media per tutti i CPR).

Arriviamo dunque al cuore della questione che non è “chi trattenere” per espellere, ammesso – e chi scrive ne dubita – che esistano minimi spazi per un utilizzo della detenzione amministrativa, bensì “chi (e perché) decidere di espellere”. Nella iniqua normativa vigente, l’unica risposta ad una condizione di irregolarità di soggiorno, che può prodursi per innumerevoli motivi, anche di minima rilevanza, ha come esito l’espulsione.

Ogni anno vengono dunque emanati dalle questure decine di migliaia di provvedimenti di espulsione che annullano le situazioni individuali gettando indistintamente ogni straniero in condizioni di esclusione e marginalità sociale. In questo immenso bacino di persone forzatamente clandestinizzate l’amministrazione pubblica, come in un gioco crudele, ne pesca una minima parte (5.147 nel 2022) per rinchiuderli nei CPR ottenendone alla fine il rimpatrio per meno della metà di essi (2.520 nel 2022).

Duemila persone a fronte di centinaia di migliaia di irregolari presenti in Italia. Come ha fatto acutamente osservare il garante nazionale per le persone private della libertà personale, Mauro Palma, nella sua relazione al Parlamento per il 2022 “il tempo sospeso [del trattenimento] è stato semplicemente sottratto alla vita per diventare simbolo rassicurante per la collettività”. Se l’efficacia del sistema dei trattenimenti è quasi nulla (e lo è sempre stata nel corso degli anni) significa che il sistema esiste, dunque, non per allontanare gli stranieri ma per rispondere ad altre finalità politiche.

La via d’uscita a questa gigantesca macchina che produce irrazionalità e violenza è quello di rovesciare l’approccio ovvero limitare il ricorso all’espulsione nei soli casi in cui l’ingresso o il soggiorno legale non sia concretamente possibile. All’opposto della cieca rigidità attuale la norma dovrebbe prevedere meccanismi flessibili di regolarizzazione, nonché la possibilità di recuperare una pregressa regolarità di soggiorno in presenza di chiari indici di integrazione sociale.

Solo nei casi in cui ciò si dimostri non possibile, dando così reale attuazione alla Direttiva europea 2008/115/CE sui rimpatri, vanno realizzati percorsi efficaci di rientro volontario assistito della persona che ha fallito il suo progetto migratorio, e in caso di ottemperanza a tale decisione di allontanamento non va imposto all’interessato un divieto a un futuro ingresso regolare, se ci saranno le condizioni. Ciò di cui abbiamo bisogno è dunque un Diritto che bilanci i diversi interessi e rispetti i diritti fondamentali della persona, e scopriremo che esso, oltre ad essere equo, è più efficace di quello dal pugno duro (e ottuso) verso i deboli.