Il braccio di ferro brasiliano
Mani pulite brasiliana, l’inchiesta infinita tira in ballo Color de Mello
Nella schiera degli ex presidenti della repubblica condannati mancava giusto Color de Mello: l’Alta corte gli ha dato 8 anni di carcere per corruzione.
Editoriali - di Angela Nocioni
Fernando Collor de Mello. Il presidente di destra del Brasile nei primissimi anni Novanta, il primo capo di stato democraticamente eletto dopo la fine della dittatura militare. Trent’anni fa. Un’era politica remota ormai nel paese ridisegnato nella sua geografia politica da una rivoluzione per via giudiziaria che negli ultimi quindici anni ha raso al suolo una intera classe dirigente. Presidenti della repubblica, politici di primo piano e i principali imprenditori. Destra, sinistra, centro. Mancava giusto Collor de Mello.
E’ stato condannato l’altro ieri dalla Corte suprema a otto anni e dieci mesi di carcere per corruzione passiva e riciclaggio di denaro, in un’indagine derivata dall’operazione “Lava Jato” (autolavaggio: da un autolavaggio narra la leggenda prese il via la mega inchiesta sui fondi neri alla politica che ha terremotato il Brasile e, per rivoli finiti oltre frontiera, ha travolto anche ministri e dirigenti politici in paesi vicini). Collor de Mello è stato considerato colpevole di aver ricevuto 20 milioni di reais, 3,7 milioni di euro, tra il 2010 e il 2014, quando era senatore, per facilitare – agilizar si dice in Brasile – i contratti tra una società di costruzioni e un’ex impresa controllata di Petrobras, l’impresa pubblica di petrolio, la più grande impresa pubblica americana.
Otto dei dieci giudici della Corte suprema si sono dichiarati a favore della sua condanna. Il relatore del caso, il giudice Edson Fachin, aveva chiesto 33 anni di reclusione. Non verrà arrestato immediatamente perché può ancora fare ricorso in appello. In Brasile funziona così.
La Corte in realtà ha 11 giudici. Uno, quello di nomina presidenziale, era vacante. Non lo è più. Con un atto clamoroso Lula, rieletto alla presidenza nell’ottobre scorso dopo una via crucis giudiziaria che ha fatto fuori lui e uno a uno i principali dirigenti del suo partido dos trabalhadores prima che le ultime votazioni lo riportassero in trionfo al Planalto, ha nominato per quel fondamentale luogo di potere l’avvocato che è riuscito a farlo liberare dimostrando che l’avevano arrestato non per colpe dimostrate ma per sbatterlo fuori dall’agone politico. Cristiano Zanin ha 47 anni.
La sua nomina deve essere approvata dal Senato, passaggio il cui esito è dato quasi per scontato. Sarà il più giovane degli undici alti magistrati, le persone più potenti del Paese, molto più potenti del capo del governo. I componenti del Supremo possono rimanere in carica fino al settantacinquesimo anno d’età, quindi sulla carta Zanin potrà rimanere al Supremo fino al 2050. Tutto l’entourage di Lula rivendica la sua nomina come necessaria per riequilibrare l’orientamento politico della Corte. Ricorda che l’ex presidente Bolsonaro ha nominato ben due giudici super conservatori e che è arrivato a piazzare lì al Supremo André Mendonça, un pastore presbiteriano sbandierato al suo elettorato di ultras religiosi come “terribilmente evangelico”.
Al di là della guerra all’ultimo sangue tra i due schieramenti di un Paese sempre più polarizzato, è evidente come mettere il suo avvocato personale al Supremo sia la rotonda vendetta di Lula contro Sergio Moro, il giudice che – è stato dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio – lo fece arrestare con un atto illegittimo e immotivato nel pieno della campagna elettorale del 2018 allo scopo di toglierlo di mezzo dalla corsa alla presidenza.
Sergio Moro, attualmente senatore eletto con i voti della destra, sono vent’anni che lavora per diventare giudice del Supremo. Quella tornata elettorale brasiliana del 2018, cruciale nella storia latinoamericana recente, trasformata dall’arresto in diretta televisiva del candidato favorito Lula da Silva, fu poi vinta da Jair Bolsonaro. Che appena arrivato al Planalto chiamò a fare il ministro della Giustizia proprio Moro che fino a quel giorno aveva giurato a tutti i microfoni di tutte le tv che non sarebbe mai entrato in politica. E che immediatamente accettò.
L’ultima puntata ora della tregenda politico giudiziaria è lo strascico non scontato della serie di rivolgimenti politico giudiziari in Brasile compiuti durante la serie di inchieste sul finanziamento occulto di grandi imprese ai partiti. La conduzione e la copertura mediatica di quei processi non solo ha condizionato e continua a condizionare l’agenda politica, ma inevitabilmente promuove e decapita – quindi seleziona – la classe dirigente. Gli uffici di alcune procure della Repubblica, ma soprattutto le cronache televisive che ne ricostruiscono e spesso ne anticipano con grande enfasi le attività, sono state e sono tuttora, anche se con minor clamore, il teatro di una feroce guerra politica e istituzionale.
Protagonista assoluta delle inchieste continua ad essere la delação premiada, la delazione premiata, una versione brasiliana (con alcune differenze) della nostra normativa sui collaboratori di giustizia. Si tratta di un vero e proprio contratto firmato tra accusato e inquirente, un contratto che ha permesso – un esempio tra i tanti – nel 2017 a un imprenditore noto come “il re della carne” di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni – destra, sinistra e centro, più alcuni giudici – pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti e di evitare il processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. Identico meccanismo in infiniti altri processi nei decenni.
La norma prevede sostanziosi sconti di pena e, in alcuni casi, la liberazione da ogni pendenza penale. Un bell’incentivo a vuotare il sacco, certo. Ma anche a mentire con intelligenza. A offrire verità verosimili, difficili da ricostruire e quindi da smentire, tenute in piedi da brandelli d’indizi in grado di somigliare a una prova senza esserlo. Molti avvocati brasiliani rifiutano la delação premiada come strategia difensiva. Alcuni studi legali hanno denunciato pubblicamente l’uso diffuso di “metodi da Inquisizione” nelle inchieste in corso. Hanno invitato “il potere giudiziario” a “una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione”. Ma non se li è filati nessuno. Né in Brasile né altrove. La questione è la solita. In Brasile e altrove. Come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle?
In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Mani pulite brasiliana sono state le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, sono usciti dal carcere appena hanno indicato il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi tuttora, a vent’anni dall’inizio della prima inchiesta, esce e di chi entra in cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione sembra fondato.
Nel bel mezzo della guerra in corso anche dentro l’avvocatura brasiliana si sono scatenate battaglie. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata sono spuntati avvocati specializzatisi in tutta fretta nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora.