Il caso del Lazio
Patrocinio ritirato al Pride di Roma, così finiranno per vietare i cortei peccaminosi
Non è tanto la scelta di revocare il patrocinio al Gay pride a essere irragionevole, quel che davvero è irragionevole sono le motivazioni
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Si è messo storto il dibattito su questa faccenda del patrocinio regionale prima concesso e poi revocato al “Roma Pride”. Due domande servono a rimetterne in carreggiata le premesse: dopo di che – lo vediamo a momenti – viene dritto dritto che la Regione Lazio ha torto, sì, ma per motivi diversi e anche più gravi rispetto a quelli adoperati da chi ne ha contestato la marcia indietro.
La prima domanda: gli organizzatori di “Roma Pride” avevano diritto di ottenere che la manifestazione fosse patrocinata dalla Regione? No, salvo credere che esista un diritto a quel patrocinio per il solo fatto che qualcuno lo pretende. Seconda domanda: la Regione aveva diritto di non concedere quel patrocinio o, com’è successo, di revocarlo? Sì, salvo credere che l’amministrazione abbia l’obbligo di soddisfare un diritto che appunto non c’è, e di esservi tenuta irrevocabilmente pur quando cambia intendimento per mutate circostanze.
Fine del discorso noioso, che però serviva. Perché discutibili (eufemismo) non sono le scelte revocatorie della Regione Lazio, ma le inaudite motivazioni che essa ha adoperato per giustificarle. E cioè che il buon nome regionale non può essere utilizzato (testuale) “a sostegno di manifestazioni volte a promuovere comportamenti illegali, con specifico riferimento alla pratica del cosiddetto utero in affitto”, o per dare copertura istituzionale a iniziative incompatibili con le “sensibilità dei cittadini del Lazio”. Motivazioni pericolosamente sconsiderate, l’una e l’altra.
La prima infatti suppone che il patrocinio non si conceda a chi manifesta contro una determinata impostazione legislativa, che guarda caso è l’impostazione della maggioranza di governo. La seconda – anche più detestabile – suppone che l’amministrazione pubblica si giustapponga a tutela degli orizzonti valoriali dei cittadini, sorvegliando che essi non siano perturbati dalla nuvolaglia peccaminosa.
Purtroppo – ed è una loro colpa – organizzatori e sostenitori hanno reagito alla negatoria senza protestare quel che era necessario, e cioè che assicurare il patrocinio a una manifestazione non significa affatto farne proprie tutte le istanze e che, per altro verso, rifiutare il patrocinio alla manifestazione che reclama opposte soluzioni normative significa irreggimentare l’amministrazione in una specie di polizia morale light: perché se davvero, come dice Regione Lazio, il problema riguardasse la “promozione” di “comportamenti illegali”, allora non basterebbe negare il patrocinio e bisognerebbe ricorrere al divieto (un provvedimento che alla maggioranza Family Day piacerebbe da matti, ma ancora non hanno la sfrontatezza di proporlo).
Ma soprattutto: a urtare la “sensibilità” dei cittadini, almeno nella visione pro vita fatta propria dalla Regione, che cosa sarebbe? La manifestazione o il patrocinio? La manifestazione, ovviamente. E allora è inutile obiettare che dopotutto questi si limitano a non sponsorizzare il Roma Pride, ma non lo vietano. Diciamo che vietarlo è prematuro, ma le motivazioni officiate a revocare il patrocinio sarebbero perfette per fare trentuno: siccome bisogna tutelare le sensibilità dei cittadini, e siccome la Regione non può permettere che siano indebitamente offese da certi comportamenti, vediamo se non sia il caso d’ora in poi di adempiere con più determinazione alla salvaguardia della famiglia tradizionale e della normativa posta a presidiarne l’eternità esclusiva.
Ovviamente, poiché si tratta di non tenere bordone a chi in modo irresponsabile potrebbe dare la sensazione di strizzare l’occhio ai comportamenti illegali, ebbene bisognerebbe cambiare un po’ tutto. Fai l’ipotesi che che qualcuno reclami un diverso regime fiscale, equiparando la tassa a un pizzo di Stato: non vorrai mica sponsorizzarlo mandandolo in diretta sulla televisione pubblica.