Il 13 giugno, a Roma, la Fondazione Matteotti metterà a confronto, in un convegno originale, le figure di Giacomo Matteotti e di Enrico Berlinguer. I puristi già alzano il sopracciglio. Ma perché questa iniziativa? Giacomo Matteotti ed Enrico Berlinguer sono stati due grandi leader della sinistra e del socialismo italiano del Novecento, di cui stiamo celebrando i centenari, rispettivamente della morte e della nascita. Due leader ancora molto amati nonostante il tempo trascorso.
Due leader molto diversi e lontani sia temporalmente che politicamente; divisi dalla frattura storica tra socialisti e comunisti e da quella della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, seppur lontani e diversi Matteotti e Berlinguer furono due riformisti atipici nei loro rispettivi partiti. Per Berlinguer si può parlare, più opportunamente, di revisionismo anche se questo termine ha sempre avuto nel vocabolario comunista il senso di un disvalore, oggi fugato. Il riformismo in Matteotti si espresse nel costante tentativo di tenere unite le grandi idealità del socialismo come la giustizia sociale e la pace ed il gradualismo, la concretezza, il pragmatismo, lo studio concreto dei fatti e dei problemi attraverso i quali conseguire conquiste parziali ma fattuali.
Il rifiuto del massimalismo non si scoloriva mai nella svalutazione della frontiera ideale, che restava invece viva e pulsante. Per Matteotti il riformismo non fu mai opportunismo ma scelta ideale e vera strategia di lotta per il raggiungimento finale del socialismo inteso come sintesi di libertà e uguaglianza. Questa considerazione (o costatazione) può apparire banale ma non lo è se si considera invece la modesta fortuna che il riformismo socialista ebbe dagli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale fino, di fatto, alla fine del secolo XX. Il riformismo socialista italiano si è infatti spesso confuso con l’opportunismo e l’idea che si potessero determinare cambiamenti decisivi degli equilibri sociali gestendo pressoché esclusivamente posizioni di governo o di potere.
Veniamo a Berlinguer. Il revisionismo di Berlinguer fu la continuazione e lo sviluppo di un revisionismo iniziato con Togliatti ed ancor prima con Gramsci sui nodi cruciali della democrazia, delle vie per il raggiungimento del socialismo, del rapporto con l’Unione Sovietica.
Questo non salvò però il Pci da un messianesimo di fondo che lo tenne distante dal nodo del governo, almeno fino alle grandi vittorie nelle città della metà degli anni 70. Berlinguer, divenuto segretario nei primi anni 70, nel pieno di una grave crisi della democrazia italiana che rischiava, tra il terrorismo e le pulsioni golpiste di essere travolta, si trovò in condizioni analoghe a quelle di Turati e Matteotti alla vigilia dell’avvento del fascismo.
E anche se gli esiti delle due situazioni furono diverse entrambi dovettero fare i conti con la potente spinta al cambiamento delle masse, i rischi di divisioni interne e di sviluppo di frange estremiste e con la cecità reazionaria della borghesia italiana – nel primo caso – o della forza soverchiante degli equilibri internazionali nel secondo caso. Tanto i socialisti riformisti, quanto i comunisti italiani dovettero operare per tenere insieme la prospettiva generale del cambiamento e del socialismo con scelte politiche immediate e concrete sotto la pressione di forti spinte massimaliste, ideologiche o eversive capaci di confondersi e saldarsi con il fascismo stesso.
Naturalmente lo fecero in contesti completamente diversi ma in un Paese come l’Italia che sempre ha dimostrato la sua resistenza al cambiamento, la forza del suo retroterra conservatore e reazionario disposto a tutto pur di fermare l’ascesa dei lavoratori. C’è tuttavia un ultimo punto comune che va messo in luce e riguarda il loro profilo morale, assolutamente eccezionale e raro nel panorama politico italiano di sempre. Matteotti individuò subito il fascismo come un avversario irriducibile della democrazia e col quale era impossibile giungere ad alcun compromesso. Egli individuò il rapporto tra il fascismo, come nuova forma politica generata dalla disgregazione della democrazia liberale, l’affarismo della nuova classe politica salita al potere (il caso Sinclair Oil) e l’attacco alle posizioni della classe operaia attraverso l’attacco alla democrazia. La “questione morale” fu per lui una questione politica e sociale al tempo stesso.
Berlinguer fu segretario nel momento più critico della democrazia italiana tra gli anni 70 e 80. Si rese conto di come la condizione di democrazia bloccata stesse logorando le istituzioni repubblicane e i partiti e favorendo l’irruzione della violenza e del terrorismo nella politica; uno scenario simile a quello degli anni Venti con l’aggravante di un degrado morale degli stessi partiti. La paura della borghesia italiana e della Corona, negli anni di Matteotti – da un lato – e il timore di un ingresso dei comunisti al governo da parte del blocco militare occidentale – dall’altro – condussero, per un verso, alla fine della democrazia liberale e – per altro verso – alla crisi della democrazia repubblicana fondata sui partiti di massa, trasformati in macchine di potere.
Ed è qui, in questo nesso tra reazione e illegalità o addirittura crimine, molto simile a quello colto e denunciato da Matteotti, che Berlinguer individuò il valore politico e sociale della “questione morale” nella sua famosa intervista della fine di luglio del 1981. Due leader animati da un senso etico della loro missione e da un profilo ideale limpido accompagnato però da un senso pragmatico che oggi, in un’era di politica debole, li rende ancora moderni, popolari e amati.
*Deputato Pd e Vice presidente della “Fondazione Giacomo Matteotti”