La polemica

Che fine ha fatto la mia Cisl, non riconosco questa che insegue la destra

La Cisl è sempre stata avversaria della destra, non solo quella fascista ma anche quella conservatrice e paternalista

Editoriali - di Savino Pezzotta

10 Giugno 2023 alle 14:00

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Che fine ha fatto la mia Cisl, non riconosco questa che insegue la destra

Da diverso tempo e con tormento mi pongo la domanda: “Dove sta andando la Cisl?” Mi pongo questa domanda come ex dirigente e tuttora iscritto alla Cisl e penso sia mio diritto e dovere cercare di capire quale sia l’orientamento attuale del mio sindacato. Alcuni amici facendone una questione di “ bon ton”, ed essendo stato Segretario Generale, mi spingono a non assumere posizioni critiche su questioni sindacali. Forse sarà sgarbato, ma non si può tacere quando gli interrogativi ti nascono dal cuore.

In Italia c’è un nuovo governo che non perde occasione per dichiararsi di destra, e per un militante della Cisl, storicamente, questo termine ha sempre rappresentato una inaccettabile proposta politica. Non penso solo alla destra fascista che è stata sconfitta dalla Resistenza e, soprattutto, dalla Costituzione repubblicana, ma penso anche alla destra conservatrice e paternalista. La destra che abbiamo di fronte oggi ha un’altra connotazione, che va analizzata con molta attenzione perché è capace di insinuarsi tra la base sindacale. L’attuale destra al governo sta dentro un filone culturale e politico ben preciso, quello neoliberista, e pratica idee discriminatorie che negano il riferimento all’uguaglianza delle persone, dei popoli e delle culture: un progetto che si pone al difuori della visione liberal- democratica, in cui, pur con non poche difficoltà, il sindacato si collocava, e che considerava un attore fondamentale per il passaggio dalla democrazia politica a quella sociale ed egualitaria.

Ora , legare il valore dell’autonomia sindacale esclusivamente a una visione contrattualista e rivendicazionista nelle nuove condizioni imposte dalla nuova stratificazione sociale, dai cambiamenti economici e politici planetari, finisce per creare le condizioni che strutturano una situazione di compiacenza verso i nuovi poteri che stanno emergendo nella politica e nell’economia. L’accettazione di un ruolo spogliato di valenza politica, seppur autonoma, rischia di generare una regressione verso il “mestiere” e di relegare il sindacalismo a una semplice dimensione negoziale privatistica o corporativa.

Mi ha molto inquietato il resoconto dell’incontro tra parti sociali e governo che ho letto nella versione resa da “Conquiste del Lavoro” (quotidiano on line della Cisl) dove si riportano le dichiarazioni fatte a quel tavolo dalla premier Giorgia Meloni: “meno tasse soprattutto per chi guadagna poco. Lavoro stabile, soprattutto per le donne: riforma delle pensioni, soprattutto per i giovani, per evitare una bomba sociale in futuro, e un osservatorio per tenere sotto controllo gli effetti dell’inflazione e calibrare meglio gli interventi per proteggere potere d’acquisto e salari. E per finire un richiamo alle parti sociali a mettere da parte pregiudizi per una stagione di riforme, dal fisco alla Costituzione.”

E’ uno sbaglio dare una visione tutta positiva di quella che secondo il mio pare era una semplice dichiarazione di intenti e non una proposta di reale negoziazione. Dopo due mesi di mobilitazione unitaria mi attendevo un giudizio più analitico e, per lo meno, unitario delle tre confederazioni, così non è stato. Ogni organizzazione ha preferito dare un suo giudizio. E questo non è una valorizzazione del pluralismo ma l’evidenziazione dello stato di debolezza, di incertezza strategia del sindacato Confederale.

Come vecchio militante cislino ciò che mi ha impensierito sono state le dichiarazioni del Segretario Generale Luigi Sbarra: “Bene la disponibilità dell’Esecutivo a riprendere il confronto a Palazzo Chigi e nei ministeri. La Cisl sarà inchiodata alle trattive sapendo che non si può stare con un piede ai tavoli e l’altro con la piazza.” La logica del “sedere di pietra” è sempre stata una costante nel trattativismo cislino: non lasciare i tavoli di trattativa quando si sono aperti è nella prassi costantemente esercitata. Questa pratica però si è sempre sostenuto che dovesse essere sorretta dalla mobilitazione e dal mantenimento in campo di un minimo di rapporti di forza.

La mobilitazione è cosa diversa dallo sciopero che ne è solo uno degli strumenti. Andare in piazza è creare quella relazione di empatia e di solidarietà tra le lavoratrici, lavoratori e cittadini. La mobilitazione non può essere vista solo legata allo strumento dello sciopero, che resta lo strumento principale ma in certi momenti e in certe situazioni serve dare vita a una pressante attivazione sociale, culturale e politica a sostegno dei tavoli del confronto e diffondere la conoscenza di quello che si sta facendo attraverso un contatto e un coinvolgimento diretto delle persone. Affidarsi alla sola comunicazione mediatica non basta serve un contatto fisico e caldo, fatto di volti, di scambio di parola, di slogan semplici.

Altro elemento che rende impellente la domanda iniziale è che ci si è astenuti sulla “Mobilitazione Europea” promossa dalla Confederazione Europea dei Sindacati con un Ordine del Giorno votato in chiusura del XV Congresso che si e tenuto a Berlino, perché non si condivideva l’idea di una mobilitazione da tenersi contemporaneamente nelle principali piazze europee, proponendo in alternativa una piccola manifestazione di apparato davanti alla sede della Commissione Europea a Bruxelles. Mi chiedo perché la mobilitazione genera timori?

In fasi delicate come quella che stiamo attraversando è corretto mantenere e praticare atteggiamenti moderati e temperati, ovvero evitare la sommatoria di troppe richieste e definire obiettivi credibili, e anche tenere conto dei rapporti di forza , dei reali orientamenti politici e sociali delle lavoratrici e dei lavoratori e della loro esigenza di sicurezza. Altra cosa è scivolare, negando il valore della mobilitazione, nel moderatismo che rappresenta l’evidenziazione di un atteggiamento di rinuncia, di ricerca di accomodamenti, di compiacenza, di sostanziale accettazione dello “status quo” come elemento immodificabile.

E’ in questo contesto che colloco gli stessi apprezzamenti del Segretario Sbarra espressi recentemente nei confronti del Ministro Salvini come “uomo del fare”. Certo il ministro si è recentemente e improvvisamente convertito alla difesa del Sud dopo aver per tanti anni alimentato una contrarietà che rasentava il razzismo nei confronti dei “meridionali”, per aver alimentato contrarietà e discriminazioni nei confronti degli immigrati, per essere stato contro l’accoglienza e per aver usato strumentalmente simboli religiosi.

Ma come fa Sbarra dire che è sbagliato dire di no al nucleare quando ci sono stati referendum popolari in tal senso, come si fa a dire che la mancata costruzione della variante della Gronda ha causato i morti del Ponte Morandi che come si sa sono stati determinati invece dalla colpevole e delinquente inerzia nelle manutenzioni e di agghiacciante noncuranza di chi doveva fare i controlli, non una parola contro il governo che taglia i fondi per il reddito di cittadinanza, non una parola sulle carenze della sanità ?

È vero che molti iscritti al sindacato hanno votato per la destra, ma questo non esime un dirigente dall’ essere misurato nelle parole e nella condivisione acritica di politiche peraltro confutabili di leader caratterizzati da posizioni intransigenti e non certo vicine ai valori del sindacalismo.

* Ex segretario generale della Cisl

10 Giugno 2023

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