Il passato coloniale

Lager e impiccagioni: gli orrori italiani in Libia

Prima dei nazisti, i fascisti deportarono 100mila persone, costringendoli a marciare verso campi di concentramento: è tutto documentato ma lo nascondono

Editoriali - di Guido Neppi Modona

13 Giugno 2023 alle 15:00 - Ultimo agg. 13 Giugno 2023 alle 16:16

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Lager e impiccagioni: gli orrori italiani in Libia

Il mito degli “italiani brava gente”, a lungo coltivato dopo il ventennio fascista in contrapposizione ai tedeschi nazisti, trova purtroppo una smentita senza appello nella storia del colonialismo italiano, riferito per quanto qui interessa alla Libia. Non è dunque un caso che nell’Italia democratica e repubblicana sia stato steso un pietoso velo di oblio sul nostro passato coloniale, perché si tratta di un passato che svela la realtà di una repressione feroce e spietata nei confronti della popolazione civile di quel Paese.

In Libia gli italiani hanno anticipato di una quindicina di anni, sia pure in scala minore, i metodi utilizzati dal razzismo tedesco per eliminare milioni di ebrei e le altre popolazioni ritenute inferiori alla perfetta razza ariana. Tra il 1928 e il 1932 la repressione della resistenza libica all’occupazione italiana coinvolse indistintamente l’intera popolazione civile – donne, vecchi e bambini – del Geben, vasta regione della parte occidentale della Cirenaica. Pietro Badoglio, allora governatore generale della Libia, nel comunicare al vice governatore della Cirenaica Rodolfo Graziani la decisione di procedere alla deportazione, dichiarò che non si nascondeva la gravità del provvedimento, ma ormai la via era tracciata e doveva esser perseguita “sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”.

La deportazione, attuata con il concorso dell’esercito italiano, riguardò almeno 90-100mila libici, poco meno di un terzo della popolazione della Cirenaica, che a seconda delle località di provenienza furono costretti a una marcia di centinaia di chilometri verso campi di concentramento appositamente istituiti, con al seguito i loro mezzi di sussistenza, seimila capi di bestiame, bovini, pecore e capre. Le disposizioni di Badoglio furono eseguite con grande efficienza e tempestività dal vice-governatore Graziani (per inciso si può qui ricordare che lo stesso Graziani fu poi solerte persecutore dei partigiani e degli ebrei durante la Repubblica sociale italiana, dopo l’8 settembre 1943).

Non è esagerato parlare di una vera e propria marcia della morte. Una Relazione del Commissariato regionale di Bengasi del luglio 1932 così descrive le condizioni della marcia: “Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così dragoniano [sic] fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche per il bestiame che per le condizioni fisiche non era in grado di proseguire la marcia veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che aveva il compito di proteggerlo e custodirlo”.

Punto di arrivo dei sopravvissuti erano i campi di concentramento – due di grandi dimensioni e altri sei minori – ove le condizioni di vita dei deportati erano pessime, dal punto di vista sia alimentare – testimoni raccontano di un pezzo di pane di 150/200 grammi al giorno – che sanitario, a causa della denutrizione e delle disastrose condizioni igieniche. Non si può non rilevare che nell’esperienza nazista la marcia della morte fu disposta dai campi di sterminio in Polonia verso la Germania, sotto la pressione dall’est dell’esercito sovietico, mentre in Libia la marcia fu effettuata per deportare la popolazione dal Geben nei campi di concentramento in Cirenaica.

La repressione mediante la deportazione di massa si intreccia con interventi giudiziari contro gli esponenti della resistenza, a cominciare dal capo carismatico Omar al-Mukhtar, tutti condannati a morte “secondo gli usi locali”, cioè mediante impiccagione. La documentazione fotografica delle batterie di patiboli con gli impiccati privi di vita e la sfilata della popolazione condotta forzatamente ad assistere alle esecuzioni denunciano scopertamente la funzione terroristica svolta dalla repressione giudiziaria. Per dare una parvenza di legalità all’eliminazione degli oppositori venne istituito a Bengasi il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, organo militare di giustizia politica. Gli oppositori erano accusati del reato di alto tradimento per avere violato l’atto di sottomissione agli occupanti espresso in precedenza in occasione di un accordo con le autorità italiane.

Ai processi veniva data la massima pubblicità: ad esempio, quello nei confronti di Omar al-Mukhtar fu celebrato nell’aula dell’ex Parlamento della Cirenaica, assiepata di folla. La preoccupazione di legalizzare la repressione giudiziaria giunse al punto di istituire i c.d. “tribunali volanti” per trasferire via aerea i giudici militari e il pubblico ministero e celebrare i processi nelle località ove i capi ribelli avevano operato. L’attività del TSDS fu molto intensa: nel solo periodo dall’aprile 1930 al marzo 1931 furono condannati alla pena di morte 133 imputati, eseguita nei confronti di 119.

La conoscenza di queste vicende, la cui divulgazione è stata tenacemente ostacolata nell’Italia democratica, è affidata, oltre che alle fonti scritte, alla documentazione fotografica e cinematografica. Al riguardo, chi volesse attingere a queste fonti può utilizzare il recente volume di Alessandro Volterra e Maurizio Zinni, Il leone, il giudice e il capestro, accompagnato da una ricca appendice iconografica, nonché i film Fascist legacy e Il leone del deserto, entrambi liberamente accessibili in rete. Quanto a quest’ultimo l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti lo ritenne “lesivo dell’onore dell’esercito” e nel 1982 il sottosegretario alla giustizia Raffaele Costa negò il visto della censura, impedendone la circolazione nelle pubbliche sale cinematografiche.

13 Giugno 2023

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