Il reato universale
Gestazione per altri è il divieto di calpestare la dignità delle donne
Proprio la proibizione rappresenta la continuità di espropriazione del corpo femminile, storicamente sottomesso a volontà e poteri altri dalla donna
Editoriali - di Grazia Zuffa
Il “reato universale di surrogazione di maternità” approderà in aula alla Camera, dopo la recente approvazione in Commissione Giustizia. Com’è noto, il nuovo reato prevede la sanzione penale per chi acceda a questa pratica anche nei paesi in cui è legittima e regolamentata.
Che il reato “universale” possa essere effettivamente perseguito una volta approvata la legge è tutto da vedere, visto il contrasto coi principi costituzionali e con la Carta dei diritti dell’UE, bene illustrati da Riccardo Magi (l’Unità, 1° giugno). In ogni modo, e con ogni evidenza, la proposta confida soprattutto nel valore simbolico del diritto penale: la messa al bando della pratica e la “lettera scarlatta” per chi vi ricorra. La “universalità” ha in primo luogo la funzione di rafforzare il biasimo.
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In contemporanea al dibattito alla Camera, è uscita la petizione della rete NOGPA (firmata da centinaia di vari personaggi, intellettuali, ex parlamentari, politici, molte femministe), dal titolo “La maternità surrogata offende la dignità delle donne e i diritti dei bambini”. Anche questa petizione si affida al penale, chiedendo alla politica e al parlamento “di confermare il divieto di maternità surrogata” e di “spingere a livello UE e ONU per una messa al bando di tale pratica in sede internazionale”. Resta il problema di capire il perché del silenzio sul provvedimento governativo attualmente in discussione, che dà un senso ambiguo all’appello, fra sostegno implicito alla proposta della destra e concorrenza in campo proibizionista.
Lascio da parte questo aspetto del gioco politico, per affrontare altre questioni di merito. Perché si ritiene che la proibizione, per di più “universale”, possa difendere i diritti delle donne e dei bambini? Quale idea di famiglia sottende la proibizione? Infine, ciò che come femminista mi sta più a cuore: quale idea di “dignità” della donna sta dietro il divieto della GPA? E quale idea di madre, di funzione materna, di libertà femminile? Di certo, punire col carcere i genitori non è nell’interesse dei bambini. E neppure lo è impedire il riconoscimento dei figli. Ancora una volta, si rischia che una norma di principio contro l’aborrita pratica prevalga sul “bene” concreto dei singoli bambini, privandoli della protezione affettiva e legale degli adulti di riferimento.
Bollare la pratica come “universalmente criminale” si tradurrà in pesante stigmatizzazione, per i bambini prima di tutto. Ho memoria della lontana battaglia per il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, a favore di quei bambini allora definiti “illegittimi”. Allora, il diritto rinunciò a imporre un modello di famiglia e a normare i comportamenti in campo riproduttivo. Insieme all’introduzione del divorzio, si creava uno spazio di pratica sociale per la “famiglia moltiplicata”, ben prima dell’irrompere sulla scena procreativa delle Tecnologie della Riproduzione.
A distanza di oltre mezzo secolo, nessuno potrebbe oggi affermare che quei primi atti di liberalizzazione delle scelte procreative, in direzione di un “diritto leggero”, siano andati contro il benessere dei figli, anzi. Semmai, le “nuove” figure parentali della famiglia moltiplicata hanno facilitato la memoria: anche in passato la cura dei figli non è stato esclusivo compito della madre “unica e vera”, pure altre figure familiari, perlopiù femminili, hanno svolto questa funzione. Dietro la ripulsa indiscriminata del cosiddetto “utero in affitto”, così come dietro l’opposizione più larga alle tecnologie della riproduzione (vedi la originaria messa al bando della “eterologa” e l’esclusione delle donne single della legge 40), si intravede il tentativo di ritorno al modello unico di famiglia, formato dalla coppia eterosessuale, di un uomo e di una donna, dove quest’ultima è destinata ad assolvere l’esclusivo e ben noto ruolo materno.
In tale cornice di restaurazione, l’enfasi sulla “vera madre” bene si lega alle riserve sulla “legittimità” genitoriale delle coppie dello stesso sesso. Non mi dimentico che l’incendio mediatico su “l’utero in affitto” è stato appiccato nel 2016, in connessione e concomitanza con la discussione sulle unioni civili delle coppie omosessuali. E basta la recente vicenda del mancato sostegno al Gay Pride da parte del presidente della Regione Lazio a rinfrescare il ricordo.
Maria Grazia Giammarinaro, giurista e Rapporteur dell’ONU sulla tratta, ha proposto una convincente regolamentazione della GPA, a difesa dei figli e delle donne più povere dallo sfruttamento del mercato globale (Domani, 1 giugno). “Occorre dare priorità – scrive- alla relazione instauratasi con la gravidanza, che deve prevalere rispetto a una scelta effettuata dalla madre gestante molti mesi prima. Questo tipo di legislazione non implica la subordinazione della donna né a una regolazione statale proibizionista che la costringe all’illegalità, né alla logica ferrea del contratto a prestazioni corrispettive, che la obbliga a rispettare sempre gli accordi di prima della gravidanza”.
Ne risulta un quadro di garanzie per tutti: per la madre gestante che dopo il parto conserva il diritto di tenere con sé il bambino/la bambina qualora lo voglia; per gli aspiranti genitori sociali (il più delle volte per l’aspirante madre sociale impedita a portare avanti una gravidanza) che saranno tutelati a condizione che rispettino fino a dopo il parto la volontà della madre gestante di confermare/revocare la separazione dal bambino; infine per i bambini, protetti da discriminazioni e stigma. Si tratta di un quadro legale di riferimento favorevole al dispiegarsi di relazioni positive fra le figure parentali, per il benessere del bambino.
Rimane il convitato di pietra della “offesa alla dignità della donna”. Perché – si dice- la GPA riduce la donna a oggetto, a “utero in affitto” appunto. Non ci si accorge che ragionare sulla “dignità” di un’altra donna trascurando la soggettività di colei la cui dignità si suppone lesa, questo sì che la riduce a corpo/oggetto, a corporeità muta. Non ci si accorge che proprio la proibizione rappresenta la continuità di espropriazione del corpo femminile, storicamente sottomesso a volontà e poteri altri da lei: costretto a partorire contro la sua volontà col divieto di aborto, oggi interdetto a portare avanti una gravidanza per altre/i, a prescindere da lei. Alcune dicono di sentirsi offese in quanto donne e persone dalla GPA. Io mi sento offesa dalle donne che parlano in nome di altre, le donne che concretamente mettono in gioco il proprio corpo; che parlano senza chiedersi se sappiano davvero qualcosa del vissuto delle “altre”. E che parlano a voce alta, col rischio di sovrastare la voce più debole delle “altre”.
*Presidente della Società della Ragione onlus, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica