Nella segreteria nazionale del Partito democratico, Alfredo D’Attorre ha la responsabilità dell’Università. All’attività politica intreccia quella di docente (insegna Filosofia del diritto all’Università di Salerno) e saggista. Ricordiamo il suo libro più recente e di stringente attualità: Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel conflitto politico (Editori Laterza)
Che cosa ha rappresentato Berlusconi nella storia del nostro Paese?
In questi giorni è giusto che prevalga il cordoglio e il rispetto per i familiari. Ci sarà tempo per un giudizio storico-politico più ponderato. Stiamo parlando dell’italiano più conosciuto nel mondo negli ultimi 30 anni, il quale ha segnato in modo indelebile i tre ambiti più discussi della vita nazionale: in ordine cronologico la televisione, il calcio e la politica. Sono convinto che il ruolo politico di Berlusconi sia derivato anzitutto dalla capacità di rappresentare e accelerare una trasformazione culturale della società italiana in atto a partire già dagli anni Ottanta del secolo scorso. Questo deve riconoscerlo anche chi, come me, di quella trasformazione e dei suoi esiti dà un giudizio molto severo e preoccupato.
Può esistere una sinistra che voglia incidere sulla realtà delle cose esistenti senza un pensiero forte sulle grandi sfide dei nostri tempi?
No, e se questo è vero per la politica in generale, per la sinistra dovrebbe essere ancora più evidente. Siamo in un’epoca in cui, specie nel nostro Paese, la politica democratica sembra potersi occupare di tutto, tranne che delle questioni essenziali. Dai fondamentali della politica economica fino alle grandi questioni della politica estera, ciò che veramente conta per il futuro dell’Italia sembra sottratto alla deliberazione democratica e affidato solo alla solidità dei vincoli europei e internazionali. Ora, se è indubbio che per un Paese come l’Italia il “vincolo esterno” in varie forme è sempre esistito, in tempi più recenti è diventata molto più forte la percezione che il succedersi di governi di segno politico diverso non produca nessun cambiamento sulle cose che veramente contano. Da questo punto di vista, il riposizionamento del governo Meloni è esemplare. La crisi della rappresentanza ha molto a che fare con questa percezione di una fetta crescente della società che puoi votare come vuoi, ma poi sulle questioni essenziali le cose non cambiano. Questo indebolimento della forza e capacità di incidere della politica democratica è anche l’effetto di una perdita di autonomia culturale. E per la sinistra, che per costituzione dovrebbe essere la parte capace di pensare un mondo altro da quello che è, ciò ha avuto conseguenze ancora più gravi.
“C’è stata un’accettazione passiva, acritica, della globalizzazione. Si è pensato che i processi di globalizzazione non solo non avessero in sé tutti i germi per future possibili guerre, ma anzi ne costituissero il più sicuro antidoto. E perciò andassero seguiti obbedientemente” Così Massimo Cacciari in una intervista a questo giornale. A lei la parola.
Su questi temi ho pubblicato di recente un libro per Laterza, Metamorfosi della globalizzazione, affrontandoli con le categorie concettuali della mia disciplina, la teoria del diritto. Ma il libro si presta anche a una lettura più politica, che invita a non passare dal sostegno acritico all’iper-globalizzazione neo-liberale alla tesi che sia ora inevitabile un mondo diviso in blocchi rigidamente contrapposti, destinati a ridurre al minimo i livelli di interscambio e cooperazione nel quadro di una nuova “guerra fredda”. Si tratta invece, in particolare per la sinistra, di pensare a un nuovo equilibrio fra la sovranità statuale – che non è affatto scomparsa, contrariamente alle narrazioni dominanti nei decenni alle nostre spalle – e la crescente interdipendenza globale, che rappresenta il nucleo di verità inaggirabile della globalizzazione. Il liberoscambismo estremo della fase del Washington Consensus è oggi per tante ragioni improponibile, ma forme di protezionismo selettivo e ragionevole non devono impedire un rilancio della cooperazione multilaterale su temi come l’emergenza ambientale, la regolazione dell’intelligenza artificiale, il rischio di nuove pandemie, i flussi migratori, il controllo degli armamenti, che nessuno Stato o blocco di Stati è in grado di affrontare da solo.
È d’accordo con quanti, dalle colonne de L’Unità, hanno sostenuto che la sinistra ha perso la battaglia per l’egemonia culturale con la destra?
L’egemonia è anzitutto la capacità di incrociare e plasmare il senso comune di una società, dando un’interpretazione più convincente rispetto ai propri avversari dei problemi che toccano più direttamente i bisogni e le speranze delle persone. In effetti, parte della sinistra è sembrata orientata non solo a contestare le risposte che la destra dà ad alcuni di questi problemi, ma la stessa esistenza di questi ultimi. E così istanze di protezione, sicurezza, identità, legame sociale, autodeterminazione collettiva hanno incontrato solo la declinazione in chiave regressiva della destra. Un’egemonia culturale non si costruisce testimoniando astrattamente dei valori, ma anzitutto comprendendo le ragioni che stanno dietro il successo degli avversari e riuscendo a darne un’interpretazione di segno diverso e più efficace.
Parlare, come fece Antonio Gramsci, del Partito come “intellettuale collettivo” è oggi una eresia, nell’epoca del leaderismo esasperato e della democrazia dell’audience?
No, credo che sia una condizione indispensabile per ricostruire un grado minimo di autonomia della politica. La personalizzazione della leadership è inevitabile nelle democrazie contemporanee, ma se dietro la personalizzazione non c’è un soggetto, un’elaborazione e una mobilitazione collettiva, ogni leadership individuale, anche se parte con le migliori intenzioni, è destinata inevitabilmente a consegnarsi nelle mani dei media o di gruppi di interesse esterni. Abbiamo già molte esperienze, anche in Italia, su quanto effimere siano leadership di questo tipo e, soprattutto, su quanto inadeguate si rivelino a produrre cambiamenti veri, in grado di sfidare gli interessi più forti.
Guerra, cambiamenti climatici, migrazioni, disuguaglianze vecchie e nuove. Il “nuovo Pd” di Elly Schlein si sta attrezzando per questi cimenti epocali?
Elly Schlein rappresenta una grande occasione per la scommessa del “nuovo Pd”. Per la prima volta da un po’ di tempo, chi auspica una svolta della sinistra oltre gli errori della fase neo-liberale può contare su una leadership che appare pienamente “contemporanea” e in grado di reggere la sfida comunicativa con i nostri avversari. In più, Elly mi pare pienamente consapevole del fatto che questo suo indubbio talento debba ora congiungersi e mettersi al servizio di un’elaborazione e di un pensiero collettivo. La sua credibilità personale e la ventata di freschezza e novità che lei ha portato creano una straordinaria finestra di opportunità per rendere di nuovo chiaro e riconoscibile rispetto alla destra il profilo del Pd, anzitutto sui temi su cui la distinzione è apparsa sempre più sfocata: l’istruzione e la sanità pubblica, il contrasto alla precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, il diritto alla casa, il rapporto fra Stato e mercato, l’autonomia strategica dell’Europa, l’impegno per la pace e per un nuovo multilateralismo.
La sinistra e la guerra. La butto giù seccamente: non pensa che ci sia una subalternità di fondo al pensiero mainstream per cui tutto si riduce ad un sostegno militare dell’aggredito ucraino contro l’aggressore russo? E la politica?
Sì, mi pare che anche nel campo del centrosinistra talvolta ci sia una gara a chi si mostra più filo-atlantico. Intendiamoci: penso che la scelta del Pd di garantire il sostegno militare alla nazione aggredita sia sacrosanta, così come non ho dubbi che l’alleanza con gli Stati Uniti sia centrale e strategica per il nostro Paese. Ma penso che sia arrivato il tempo di contestare il modo del tutto inerte e subalterno in cui il governo Meloni sta interpretando queste scelte. E il “nuovo Pd” può farlo a pieno titolo, proprio perché non si è sottratto alla responsabilità di garantire il sostegno militare all’Ucraina. È arrivato il momento di dire che l’invio delle armi deve legarsi a un’interlocuzione con i nostri alleati americani e con il governo ucraino per discutere di quale sia la finalità delle armi e della prosecuzione della guerra. Che vuol dire vincere la guerra e sconfiggere la Russia? Immaginiamo davvero che la guerra possa concludersi con la deposizione e l’arresto di Putin?
E quali conseguenze politiche dovrebbero derivare da questa analisi?
Credo che sia compito anzitutto del nucleo dei principali Paesi europei quello di spingere per l’avvio reale di una fase negoziale che punti a un compromesso realistico, a partire dal fatto di avere evitato la riduzione dell’Ucraina a uno stato fantoccio (l’obiettivo iniziale di Putin) e dall’impegno a costruire tutte le condizioni di sicurezza future che garantiscano la scelta di quel Paese di voler far parte del campo europeo e occidentale. Ed è illusorio che questa iniziativa possa assumerla l’Europa a 27, in cui cresce il ruolo di Paesi, come quelli baltici o la Polonia, che, per ragioni storiche e geografiche, non credono a una conclusione negoziale del conflitto. Il punto su cui la Meloni andrebbe incalzata e contestata è che l’Italia non ha nessun interesse a individuare nella Polonia il suo interlocutore fondamentale e a schiacciarsi sulla sua stessa posizione. I nostri partner essenziali devono tornare a essere la Francia, la Germania, la Spagna, ed è con loro che l’Italia dovrebbe costruire una posizione comune e più autonoma, in grado di spingere le parti in guerra al cessate il fuoco e al negoziato. È veramente sconfortante che finora questo lavoro lo stiano facendo – e va dato loro pieno merito – solo papa Francesco e il presidente brasiliano Lula.