"Esiste la luce nel buio"
“La droga mi ha portata in carcere, è lì che sono rinata ma c’è bisogno di più ascolto”, la storia di Paola
Cultura - di Rossella Grasso
“Per sconfiggere la droga c’è bisogno di più amore ma soprattutto di ascolto e aiuto mirato. Questo l’ho capito dopo esserci caduta e poi uscita”. Paola Aceti, romana, oggi ha 53 anni ed è come se di vite ne avesse vissute due: la prima al buio, la seconda alla luce. E così ha intitolato il suo libro, “Esiste la luce nel buio”, in cui si racconta senza risparmiarsi perché “spero con la mia storia di poter aiutare tante persone, sia chi finisce nella droga, sia le loro famiglie, sia il sistema intorno che ho scoperto a mie spese avere qualche pecca”. Ora Paola è una donna che ha ripreso in mano la sua vita e oltre al libro ha intenzione di fare anche dei progetti per fare tesoro e condividere con gli altri la sua storia e come è riuscita a venirne fuori, nonostante tutto. Per gridare al mondo che cambiare si può, basta volerlo. Ed essere di supporto per chi ne ha bisogno.
Tutto è iniziato quando Paola aveva circa 30 anni. “Ho iniziato a bere per alleviare le mie sofferenze ma presto sono passata alle droghe – racconta – ci finisci in modo inconscio. Ero devastata a livello psicologico, ero fragile, depressa e non sapevo come fare a superare i miei disagi. Non avevo nemmeno un buon rapporto con la mia famiglia, troppo rigida per le mie fragilità, soprattutto mio padre. Quando mi sono separata da mio marito non sentivo di avere alcun appoggio e così il mio mondo è precipitato”. Sin dall’inizio del suo racconto Paola sottolinea più volte che per le persone fragili come lei è stata è fondamentale l’ascolto in famiglia: “Può fare davvero tanto quando ti senti perduto”.
Il dolore era tanto e Paola iniziava a cercare vie facili per anestetizzarlo con alcol e droga. “Spesso si dice che si finisce in certi giri per le amicizie sbagliate – continua il racconto – ma non è così: ci si incontra tra soggetti che hanno problemi simili. E’ inevitabile. E così queste sostanze non ti fanno pensare più, nemmeno a te stessa. Inizi e pensi: ‘tanto poi smetto’. Ma la droga è una sostanza maledetta, subentra facilmente la tossicodipendenza. Poi arriva l’astinenza. Ma il momento peggiore è quando sei lucido e capisci la sofferenza che vivi e che dai agli altri. Vedi i tuoi problemi ma ormai sono diventati insormontabili, più grandi, trovare una soluzione è sempre più difficile. E allora ci ricaschi peggio per trovare più sollievo e nuove vie di uscita. E’ come l’inferno”.
Paola ha provato per ben tre volte a ricorrere a una comunità ma ha lasciato il suo percorso a metà. Descrive quell’esperienza come più dura ancora del carcere. Quello che continuava a mancarle era l’ascolto: continuava a combattere con i suoi demoni ma non c’era un programma che sentiva adatto per uscirne. “Ho capito sulla mia pelle che è importante lavorare sin da subito sui propri problemi ma che se il punto non è centrato è come perdere il tempo. Ed è questo forse il motivo per cui qualcuno scappa dalle comunità e poi ricasca nella droga. Come ho fatto io. Ci vorrebbero più programmi mirati, individuali, cuciti su ognuno”.
C’è anche un altro aspetto molto complicato in questa storia: le famiglie. Spesso lontanissime da questo mondo, addolorate nel veder soffrire i loro cari, farebbero qualsiasi cosa per salvarli. “Ma sono ‘incompetenti’ in materia, nel senso stretto del termine: non ne capiscono nulla e finiscono per non capire nemmeno il dolore. Per questo dico sempre che la cura più grande è l’amore e la fiducia da dare a chi si trova in un momento di fragilità. E’ questo che può davvero fare la differenza. Un abbraccio, ecco: era questo di cui sentivo più bisogno”. La sofferenza di Paola era diventata estrema, troppo fragile per riuscire da sola a rialzarsi. Tra le ‘cattive compagnie’ da cui si trova attratta c’è un nuovo compagno che sarà il suo primo appiglio. “Stavo male, ma lui stava male come me. Insieme finimmo ancora una volta nella droga e poi un reato, l’unico, concorso in rapina, che mi portò dritta in carcere”. Prima di finire nel vortice buio Paola faceva la cuoca, la sua è una famiglia di grandi lavoratori. La criminalità un concetto davvero lontano da tutti loro. Come era finita addirittura in carcere?
Il tunnel si era fatto ancora più buio. Eppure è stato quello il momento in cui ha cominciato a vedere la luce. “In carcere sono rimasta poco più di un anno, poi sono stata ai domiciliari e infine ho avuto l’obbligo di dimora – continua a raccontare – arrivi in carcere che sei alla frutta, dopo c’è solo la morte. E’ stato lì che ho aperto gli occhi. Mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: ‘cosa mi ha ridotto così?’. Ho iniziato a lavorare su me stessa, c’è stato bisogno di una grandissima forza di volontà, è stata dura. Mi sono aiutata da sola. In cella sono stata vera con me stessa, ho capito cosa cercavo di coprire e alleviare con le sostanze”.
Paola è arrivata in carcere al colmo della sua fragilità, disperata dopo aver toccato il fondo. E come lei tanti altri, soprattutto tossicodipendenti, finiscono in carcere dove troppo spesso hanno la possibilità solo di farcela da soli, se vogliono e se ne hanno gli strumenti e la forza. Se sono fortunati poi intorno incontrano compagni di cella che li aiutano o agenti armati di buon cuore che si sostituiscono agli psicologi ma che non è il loro lavoro. Paola è riuscita a trovare la forza da sola. “Tutto merito della mia voglia di riprendermi la vita – dice – Soprattutto lavorando in carcere ho conosciuto tante persone diverse, tante sofferenze. Qualcuno mi faceva anche paura. Ma ho affrontato tutto con l’amore che ho dato agli altri e che a un certo punto ho avuto per me. Ma avrei avuto bisogno di qualcuno, un esperto che potesse ascoltarmi, comprendere i miei drammi e indicarmi il percorso. Guardandomi intorno ho capito che la durezza del carcere o della comunità non serve a niente senza di questo. Servono assistenti sociali, psicologi, esperti che possano aiutare a cambiare. Secondo me lo psicologo e gli assistenti sociali, servono prima che il tossicodipendente venga indirizzato in una determinata comunità. I colloqui con gli esperti servono prima affinchè le persone si possano aprire e capire quali problemi bisogna risolvere. E in base a questo capire che tipo di struttura è adatta per ognuno”. Paola ce l’ha fatta da sola, è stata forte, ma quanti ce la fanno? Bisognerebbe che lo Stato prenda in carico maggiormente soprattutto le fragilità delle persone se mira a creare un mondo davvero migliore per tutti, assolvendo alla sua missione.
“Qualche tempo fa sono andata a ringraziare i carabinieri: se non mi avessero arrestata forse sarei morta di overdose prima. Mi hanno salvato la vita – dice Paola commossa – Alla fine ho perdonato anche papà con cui avevo avuto in passato grande conflitto. Sono stata con lui fino alla fine, l’ho accudito e mi è servito tanto. Non son più cascata nelle sostanze perché mi avevano tolto l’amore di me stessa e degli altri. In carcere, nella mia ora più buia, ho capito che una luce esiste sempre ed è questo il mio messaggio di speranza che voglio portare a tutti”.