La vergogna dell'Europa
Cosa è successo nel mar Egeo: la strage e il Mediterraneo come un grande lager
Solo i sommersi avrebbero potuto raccontare cosa è accaduto. Lo diceva Primo Levi. Valeva ad Auschwitz come nell’Egeo, come a Cutro. Come per gli ebrei, abbiamo finto di non vedere. Ma restare zitti vuol dire non essere democratici
Cronaca - di Eraldo Affinati
È la vergogna dell’Europa. La vergogna del mondo. La nostra vergogna. Centinaia di morti nel cimitero a cielo aperto del Mar Mediterraneo, stavolta a Philos, che incredibilmente vuol dire amore, a poca distanza dalle coste joniche, non sapremo mai quanti, uomini e donne affogati, giovani, adulti e bambini. Come a Cutro, anche questi potevano essere portati in salvo, bastava intervenire subito. Perché non è accaduto? Il protocollo da rispettare. Il mansionario da sbrigare. I permessi da ottenere.
Così la tragedia si ripete, sotto i nostri occhi, nella forma di sempre. Gli avvistamenti dei rifugiati in preda al panico non producono azioni di soccorso. Nessuno si muove, oppure lo si fa in modo istintivo, magari lanciando bottiglie d’acqua minerale fra la gente assiepata sul bordo dell’imbarcazione che, squilibrata dal movimento incontrollato, finisce per rovesciarsi.
Un peschereccio stracarico abbandonato dal comandante, l’ultimo dei criminali, se pensiamo a tutti quelli incontrati dai profughi dal momento in cui decisero di partire verso l’Italia, dove con ogni evidenza erano diretti, fino alle ore fatidiche e concitate del ribaltamento collettivo. Segnali di allarme ignorati da parte delle cosiddette autorità, greche, maltesi, italiane, vallo a capire, intanto i corpi riemergono senza più vita in mezzo ai frantumi, poveri resti d’umanità disfatta.
La sento, questa ennesima strage, come un’ustione sulla pelle perché molte di quelle persone, se fossero riuscite a sbarcare in Calabria, sarebbero venute a imparare la lingua italiana in una delle sessanta scuole Penny Wirton sparse lungo lo Stivale, associazioni di volontari che non stanno fermi con le mani in mano, avremmo potuto conoscere le storie di ognuno, ricomporre coi nomi e coi verbi le fratture interiori, in certi casi asciugare le lacrime, in altri provare a far sorridere i salvati, pur sapendo che, sulla scia di quanto scrisse Primo Levi, soltanto i sommersi avrebbero potuto raccontarci ciò che realmente è avvenuto, ma non potranno più farlo.
Quello che succede in Libia, ad esempio, è un abominio, certe cose non si possono nemmeno scrivere sui giornali perché verrebbero fraintese, strumentalizzate. Sarebbe come sovrapporre oltraggio a oltraggio. Però ci sono i video delle prigionie, delle percosse, delle torture, degli omicidi, dell’infamia vera. Nelle aule di Bruxelles li conoscono. E continuano ad alzare alti lai organizzando convegni, assemblee, riunioni, comitati. Delegazioni di burocrati incravattati non fanno che vedersi gli uni con gli altri stilando verbali. Intanto però il Trattato di Dublino, il sistema obsoleto che regola l’accoglienza e le richieste d’asilo all’interno dell’Unione europea, ha compiuto proprio ieri trentatré anni senza che nessuno sia riuscito a rinnovarlo.
Cosa vuol dire in concreto? Che Ibrahim, afghano, giunto per la prima volta da noi tanti anni fa, dopo il trasferimento in Germania, aver imparato il tedesco ed essere stato assunto come operaio a Stoccarda, è dovuto tornare indietro rinunciando a tutto, lingua, lavoro e appartamento, e ora deve ricominciare da capo. Abdel, del Ciad, stava imparando l’italiano, ma ha dovuto prendere un flixbus per Parigi perché il permesso di soggiorno lo può chiedere solo lì. Chissà dove sta adesso. E allora noi cosa dobbiamo fare? Intanto sapere che non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi ti sta accanto.
Sortirne da soli è l’avarizia, diceva il priore di Barbiana, insieme è la politica. Quella vera: è mai esistita? Una volta era questa una delle ragioni per cui dicevamo a noi stessi: sono di sinistra. Vale per i singoli esseri umani ma anche per gli Stati. Sembra una lontana eco novecentesca. Vecchie musiche in disuso. Accordi che provano in pochi. Non era stato George Steiner a scrivere che il comunismo doveva configurarsi come un’eresia del cristianesimo? Se tornassimo a maturare tale consapevolezza sarebbe già tanto, a me basterebbe convincere qualche adolescente, avrei la sensazione di aver portato a riva almeno uno dei cento naufraghi, ma certo non basterebbe.
La storia si ripete, sebbene in forme nuove. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando si scoprì lo sterminio nazista, gli alleati vollero che gli abitanti dei paesi limitrofi ai lager, i quali avevano affermato di non essersi accorti di quanto accadeva a pochi passi da loro, entrassero nei campi di concentramento in modo che vedessero i cumuli di scheletri aggrovigliati e non potessero più far finta di niente. Dopodiché questi pacifici cittadini inconsapevoli furono obbligati a seppellire le spoglie delle vittime. Lo fecero legandosi i fazzoletti intorno al naso per non sentire l’odore.
Forse abbiamo fatto troppo presto a condannare l’indifferenza della folla silenziosa. Pensavamo di essere migliori. Ma, inutile negarlo, rischiamo di ricadere nella medesima situazione. Ottant’anni fa la cenere dei morti si depositava sui rami degli alberi di fronte a casa, ad Auschwitz, Buchenwald e Bergen-Belsen. Chi oggi affoga nei flutti non può chiederci di intervenire. Dietrich Bonhoffer aveva ammonito i suoi discepoli dicendo: “Solo chi alza la voce in difesa degli Ebrei, può permettersi di cantare in gregoriano.” Io oggi, se non trovo le parole che gli scomparsi non sono più in grado di pronunciare, non posso dire a me stesso di essere democratico.