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Commissione d’inchiesta sulla giustizia sia per i crimini delle Procure

Commissione d’inchiesta sulla giustizia sia per i crimini delle Procure

Non dico che non vada fatta né che, semmai si facesse, sarebbe completamente inutile: ma l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle circostanze e gli ambiti giudiziari che trent’anni fa avrebbero dovuto rivoltare l’Italia come un calzino supporrebbe che ci fosse qualcosa da accertare, qualcosa di cui si ha magari sospetto ma che reclama investigazione. Non è il caso di quei fatti.

Non è il caso dell’epopea di Mani Pulite, che non era tanto l’indagine giudiziaria cui si decideva di affibbiare (e che si affibbiava) quel nome moraleggiante, ma il movimento giornalistico e il girotondismo plebeo che si adunavano a ripetitori e istigatori delle prestazioni togate.
Scoprire i dettagli delle detenzioni ingiuste o inutilmente protratte, fare il conto delle volte in cui il criterio discrezionale di conduzione delle indagini e delle imputazioni è stato utilizzato in modo discutibile, verificare con quali improbabili orientamenti si è sviluppata l’obbligatorietà dell’azione penale: tutto questo riguarda possibili disfunzioni, magari occasionalmente anche gravi, dell’azione giudiziaria, ma il disastro fatto in quegli anni stava altrove ed era fatto pubblicamente, senza che ci sia bisogno di accertare nulla.

Il duplice disastro dello Stato di diritto, di questo si trattò: duplice, nel senso che il disastro non solo ebbe corso, ma trovò impassibile il Paese che vi assisteva. Il capannello dei pubblici ministeri che, nel palazzo in cui si applica la legge, insorge e si rivolta contro la legge sgradita. Il procuratore della Repubblica che intima a quelli con gli scheletri negli armadi di non candidarsi; lo stesso che in esibizione equestre sarà celebrato sul magazine del primo quotidiano d’Italia; lo stesso che si rende disponibile alla chiama se il presidente della Repubblica gli fa l’onore di officiarlo a ripulire la società corrotta non più emettendo provvedimenti dalla tolda dell’incrociatore lombardo, ma direttamente dal culmine di un potere finalmente affidato all’onestà.

L’altro, l’aggiunto, che sulla notizia del suicidio di un indagato spiega che evidentemente esiste ancora qualcuno che si vergogna. La sistematica disseminazione delle veline giudiziarie che faceva recapitare via prima pagina le notizie di indagine. Gli studi televisivi adibiti a showroom delle prodezze dei pubblici ministeri e ad arene di lapidazione degli indagati, naturalmente prima dei processi da cui molti di loro sarebbero usciti assolti.

Tutto questo terremotava lo Stato di diritto con effetti di devastazione ben più gravi rispetto a quelli prodotti dagli eccessi e dalle forzature cui quella giustizia pur poteva abbandonarsi nel proprio cammino. E tutto questo, si ripete, avveniva in modo pubblico, urtando manifestamente le ragioni e le fondamenta dello Stato di diritto: che non è “giustizia giusta”, ma subordinazione di ogni potere alla propria legalità e, soprattutto, obbligazione di ogni potere a non usurpare gli altri.

Non servono inchieste per sapere se in quegli anni lo Stato di diritto è venuto meno e se i danni perdurano. Serve domandarsi perché tanti, praticamente tutti, presidiassero addirittura compiaciuti il cantiere di quella demolizione. Ma è una domanda che non riguarda l’amministrazione della giustizia: riguarda il Paese.