40 anni fa
Storia dell’arresto di Enzo Tortora, un delirio di Stato
Vi racconto come l’hanno preso, come l’hanno vessato, come lo hanno condannato non senza ma contro le prove, come lo hanno spinto a morire. Perché?
Editoriali - di Francesca Scopelliti
Sono le 4,15 di venerdì 17 giugno 1983, Enzo Tortora viene prelevato dalla sua camera in albergo e arrestato, assieme ad altre 855 persone, perchè coinvolto nell’inchiesta contro la Nuova Camorra Organizzata: a firmare il provvedimento i sostituti procuratori di Napoli, Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Un maxi blitz che con la necessaria enfasi mediatica viene definito il “venerdì nero della camorra” e suoi artefici “i Maradona del diritto”.
Tortora viene portato nella caserma dei carabinieri di via In Selci a Roma che lascerà solo per andare in carcere e solo dopo l’arrivo di giornalisti e telecamere. Per costringerlo ad un’indecorosa passerella di cinquanta metri, la gazzella dei carabinieri che lo trasporterà nel carcere di Regina Coeli viene parcheggiata sul lato opposto della strada e lui, con le manette ai polsi, viene così travolto da flash, telecamere, microfoni, insulti e qualche sputo. Ad accusarlo, e a fondamento dell’inchiesta, vi sono soltanto le parole di due pentiti: Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Il primo è pregiudicato per calunnia, omicidio, tentato incendio dell’abitazione dei genitori, minacce a mano armata contro il padre, tentato avvelenamento della madre e della fidanzata quattordicenne. Le cartelle cliniche dei manicomi giudiziari lo definiscono “paranoico, schizoide, dotato di una personalità aggressiva, fortemente condizionata da mania di protagonismo”.
Racconta ai magistrati di aver appreso che Tortora, uomo del boss milanese Francis Turatello, aveva offerto la sua collaborazione a Cutolo dal 1978 al 1981 per lo spaccio di droga: il rapporto si era poi interrotto per il mancato pagamento di una partita di cocaina di 60 milioni. A questo proposito, è necessario precisare che Pandico aveva costruito il famoso “carteggio dei centrini” facendo sì che Domenico Barbaro, suo compagno di cella, inviasse delle lettere a Tortora per richiedere la restituzione di alcuni centrini inviati a Portobello e mai messi in vendita nel mercatino del venerdì. Manchevolezza che aveva provocato lo scatenarsi di rancore e livore maniacali nei confronti di Tortora: si saprà poi che quando lo vede in televisione, Pandico inveisce contro di lui ripetutamente dicendo “te la farò pagare”. E infatti…
Pasquale Barra, detto “O’ animale” per l’efferatezza dei suoi delitti, è un killer delle carceri: ha già trucidato due detenuti quando, nel 1981, nel penitenziario di Bad’e Carros ammazza Francis Turatello, mangiandone poi le viscere. Dichiara di aver saputo che Tortora era entrato a far parte della camorra fin dal 1979 e i magistrati napoletani gli danno credito. Senza un riscontro! In effetti, la procura napoletana è “costretta” a considerarlo attendibile perchè sa bene che il nome di Enzo Tortora diventa la garanzia della credibilità professionale, il “supponto” dell’intera inchiesta, per cui si impegna scientemente in una adeguata informazione di sostegno alle tesi accusatorie e il circolo mediatico-giudiziario, fatte salve alcune autorevoli eccezioni, dà i suoi frutti.
Dal 17 giugno sino alla chiusura della fase inquisitoria, grazie a fonti facilmente intuibili, stampa e televisione diffondono notizie su “Tortora corriere della droga”, “Tortora implicato nel riciclaggio del denaro sporco”, “Tortora esportatore di valuta”, “Tortora intimo di Turatello”, “Tortora affiliato honoris causa a Cutolo tramite Turatello”, “Tortora in visita assidua alla sorella di Cutolo”. Tutte notizie macroscopicamente false. E gli accusatori di Tortora sembrano “lievitare”, tutti alimentati e promossi da una accorta “campagna di stampa”. Come diceva de Beaumarchais: “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. Il 23 giugno 1983 Tortora – rappresentato dagli avvocati Alberto Dall’Ora, Raffaele Della Valle e Antonio Coppola – incontra per la prima volta i magistrati inquirenti: un interrogatorio, molto breve, alla presenza dei due sostituti procuratori Di Persia e Di Pietro.
Quest’ultimo chiede a Tortora se conosce Domenico Barbaro: l’avvocato Della Valle fornisce la documentazione del carteggio tra Tortora e Barbaro, il quale chiedeva la restituzione o il pagamento di alcuni centrini inviati nel 1977 a Portobello. Il pacco viene smarrito dalla Rai e dopo varie raccomandate, alcune spedite all’indirizzo televisivo altre a quello privato di Tortora, Barbaro ottiene un rimborso di 800.000 lire liquidato dalla televisione di Stato. L’intera vicenda, come abbiamo visto, era stata gestita interamente da Pandico il quale aveva poi riferito ai magistrati che le lettere di protesta di Barbaro nascondevano messaggi in codice: si chiamavano “centrini” ma in realtà era cocaina. Di Pietro sfoglia perplesso il carteggio per dieci minuti e impallidisce, il segretario che sta stenografando si interrompe e scoppia in lacrime ma, nonostante tutto, i due magistrati non si fermano: “per salvare la loro faccia fottono me” scriverà Enzo.
Il 14 agosto 1983, alla vigilia di un caldissimo ferragosto, Tortora viene tradotto nel carcere di Bergamo: chiuso in un cellulare, affronta un viaggio di dieci ore durante le quali i quattro carabinieri di scorta giocano a fare i duri e, nonostante l’afa, non gli offrono neanche da bere.
L’istituto penitenziario di via Gleno ha una struttura più moderna e attrezzata, gli agenti di custodia hanno un diverso atteggiamento ma la galera, la privazione della libertà rimane sempre insopportabile ancor più se ingiusta e ingiustificata.
Una privazione che Tortora avvertirà poi anche agli arresti domiciliari: “un prolungamento più confortevole ma sterile della mia detenzione in carcere” dirà quando viene confinato nel suo appartamento milanese in via dei Piatti 8. E proprio qui, la mattina di sabato 5 maggio 1984, riceve una telefonata di Pannella che gli propone la candidatura per le elezioni europee: Enzo, convinto della necessità di riprendere una sacrosanta battaglia per la giustizia, accetta “la ventata di generosa follia di Marco”. Inizia così la campagna elettorale.
Tortora è agli arresti domiciliari, per cui la sua abitazione diventa la sede elettorale: parla dai microfoni di Radio Radicale realizzando quotidiani editoriali, ospita le televisioni private che da tutta Italia vengono a intervistarlo, partecipa in diretta ai fili diretti di emittenti locali, organizza conferenze stampa. E a tutti sollecita un pronunciamento sul suo caso: non si tratta del caso Tortora, si tratta del caso Italia.
Ad un anno esatto del suo arresto, il 17 giugno 1984, viene eletto al Parlamento europeo con 485.000 preferenze e per lui inizia una nuova vita, a Strasburgo, l’impegno di una battaglia in cui crede profondamente.
Intanto a Napoli si avvia il processo. Un processo farsa, in cui i magistrati scrivono una vergognosa commedia tragicomica con la sapiente complicità dei mezzi di informazione, del presidente Luigi Sansone e del PM Diego Marmo il quale, in assenza di prove documentali, si affida a toni veementi, aggressivi e polemici per poi, implicitamente, ammettere che l’assoluzione di Tortora farebbe saltare l’intero impianto accusatorio del processo. E infatti, il pomeriggio del 17 settembre 1985 viene condannato a dieci anni di carcere, 50 milioni di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici. E’ il frutto di un processo nato da una istruttoria inesistente, basato esclusivamente sulle dichiarazioni dei pentiti, senza uno straccio di riscontri oggettivi, senza uno straccio di prove. Solo le tante concordate più che concordanti accuse dei pentiti.
A Strasburgo, Tortora vuole spogliarsi dell’immunità parlamentare, anche a costo di ritornare in galera e, nonostante l’opposizione dell’intero Parlamento Europeo, dopo un accorato e sincero intervento ottiene un voto favorevole alle sue dimissioni. Torna agli arresti domiciliari e si prepara all’appello. Sarà la quinta sezione del Tribunale di Napoli a giudicarlo: il processo si apre con la relazione del giudice a latere Michele Morello, il quale riporta l’inchiesta e le indagini sui binari della verità, e il 15 settembre del 1986 il Presidente Antonio Rocco dà lettura della sentenza: Tortora Enzo Claudio Marcello viene assolto con formula piena dalle accuse di associazione a delinquere di stampo camorristico “per non aver commesso il fatto” e di spaccio di droga “perché il fatto non sussiste”.
Assoluzione con formula piena confermata a giugno del 1987 dalla prima sezione della Corte di Cassazione: le motivazioni della sentenza smantellano il teorema accusatorio precisando, fra l’altro, che “quando le dichiarazioni dei pentiti non offrono il minimo riscontro non possono servire in alcun modo ad infliggere condanne”. E nemmeno, aggiungerei, ad arrestare qualcuno. Meno di un anno dopo, il 18 maggio 1988, Enzo Tortora muore nella sua casa a Milano, per un cancro ai polmoni, frutto di quella “bomba al cobalto” che gli era esplosa dentro dopo l’arresto. Muore di malagiustizia.
Marco Pannella ne dà l’annuncio alla Camera dei deputati: “Tortora non va considerato come vittima, perché ha saputo non essere consenziente allo strazio di legalità e di diritto, perché non è stato tonto, non ha accettato il ruolo tragico di vittima, non ha consentito che la giustizia fosse vittima”. E nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, l’orazione funebre è del senatore radicale Gianfranco Spadaccia: “Caro Enzo, sei stato il protagonista di una grande tragedia, di un autentico dramma. Hai avuto la capacità e il coraggio di fare del tuo caso personale un caso generale, un’occasione di riflessione collettiva e anche di battaglia civile e politica: politica nel senso più alto del termine. Ciao Enzo, adesso puoi riposare in pace. Non ti hanno colpito nello spirito perché lo spirito è stato sempre, in ogni momento, indomito. E per questo sei stato colpito nella carne. Tocca a noi continuare”.
E l’indomani anche Leonardo Sciascia ricorda Enzo Tortora sul Corriere della Sera: “Ho subito creduto nella sua innocenza. Per come potevo, ho poi seguito e incoraggiato la sua battaglia. Una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e con dignità. L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. Dopo 35 anni, tocca ancora a noi evitare che sia un’illusione!
*Presidente Fondazione per la giustizia Enzo Tortora