I Quaderni 100 anni dopo
Alla crisi della mondializzazione Gramsci rispondeva “W l’Europa”: il no alle piccole Patrie
Di fronte alla crisi radicale della mondializzazione nel secolo scorso, il pensatore comunista non predica chiusura e isolamento, ma una risposta globale a un fenomeno globale: l’Unione europea
Editoriali - di Michele Prospero
Le pagine di Gramsci contengono una riflessione complessa sulla crisi della prima mondializzazione, che si arresta bruscamente con le guerre e i nazionalismi del ‘900. Il grado di interdipendenza imposto dalle dinamiche sovranazionali del mercato altera il rapporto tra il territorio della politica (nazionale) e lo spazio dell’economia (globale). Davanti ai ritmi più veloci di un’economia-mondo dominata dagli scambi e dal regime espansivo del capitale, i Quaderni registrano il restringimento della “maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale” (Q, 1567).
Anche se la risposta ai fallimenti del mercato e al panico finanziario del ’29 sembra rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, e quindi la funzione dell’apparato amministrativo nella gestione della vita quotidiana, i diversi modelli politici esistenti (americano, sovietico, corporativo-nazionalista e liberale europeo) possono soltanto rallentare, ma non certo cancellare, gli intrecci del meccanismo internazionale degli scambi. Processi oggettivi conducono all’evaporazione dell’autonomia degli strumenti dell’economia nazionale, e quindi ad un tendenziale indebolimento delle risorse della sovranità politica.
Gramsci parla di un vero e proprio “processo di disintegrazione dello Stato moderno” (Q, 690). Ciò accade per effetto delle più robuste catene di interconnessione che stringono sia dall’alto, perché “un carattere è «nazionale» quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato di cultura ed ha raggiunto (s’intende) questo livello” (Q, 1660), sia dal basso, con la moltiplicazione di luoghi e soggetti che definiscono nuove sedi di iniziativa politica e di rappresentanza. Non è possibile sviluppare alcuna analisi di un caso nazionale senza aver prima decifrato i rapporti in corso nell’ordine sovranazionale: perciò è opportuno cogliere “la realtà italiana come inserita in un sistema internazionale, come dipendente da questo sistema internazionale”. Appurare come un singolo paese si integri nelle trame conflittuali dell’economia mondiale è un tassello per la comprensione delle sue effettive capacità competitive nello scacchiere globale e per la valutazione delle sue opportunità di consolidamento istituzionale.
Per afferrare l’evoluzione nei rapporti tra spazi politici ed economie, Gramsci cerca di coniugare l’analisi materialistica (“i rapporti internazionali precedono o seguono i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente”) e talune suggestioni geopolitiche (“anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura” Q, 964). La geopolitica, valutando il peso della dimensione spaziale nelle relazioni estere degli attori statuali (“nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”), ammette la possibilità che con i dati economici, pur essenziali, possa interferire il calcolo politico, l’iniziativa strategica che incide “nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull’economia”.
Se si vuole intendere il grado di autonomia di una singola economia nazionale rispetto al giogo delle interazioni globali, giova molto l’intreccio di analisi economico-sociale (“ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale, attraverso le sue espressioni tecnico-militari”) e indagine politico-militare (“i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente specialmente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti)“. Accanto a paesi che mostrano un’accentuata dipendenza, perché “la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali”, si riscontrano entità con una più ampia libertà di manovra.
Per cogliere regolarità e discontinuità nella presenza di uno Stato all’interno del sistema-mondo, oltre alle letture in termini di classi servono anche talune istanze della geopolitica: “Già prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica, partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente (sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società in quel territorio (geopolitica e demopolitica)” (Q, 193).
Nell’ottica gramsciana, per la comprensione delle strutture della politica mondiale bisogna considerare i tre “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”. E cioè: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere più quantitativo egli aggiunge, come quarto indice, anche “un elemento «imponderabile»”, vale a dire “la posizione «ideologica» che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia” (Q, 38). Il possesso di questi fattori conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”). Oltre alla forza reale delle armi esiste la dimensione “ideologica” dell’egemonia, con la quale una superpotenza riesce ad “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.
Tutto ciò rivela che nell’economia e nelle relazioni internazionali il rapporto interstatale ha carattere asimmetrico per via dell’impatto che, entro uno schema polare centro-periferia, è determinato dal momento cruciale dell’“egemonia”, la quale oltrepassa il dato delle capacità militari effettuali. Spiega Gramsci: “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.
Accanto a paesi che dispongono di significative risorse per sprigionare un “influsso” e determinare una certa “ripercussione” sui processi politici ed economici, esistono anche delle statualità di rilevanza insignificante. Le più grandi entità politiche, dotate di una forza tale da consentirgli di rivendicare il ruolo di “potenza egemone”, sono però in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza, e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di un’alleanza di nazioni che si contende, in rivalità con altre aggregazioni, il governo del mondo. Considerazioni geopolitiche si impongono per tutti gli attori; anche la Russia all’ideologia deve anteporre il calcolo delle opportunità: “non è da illudersi neanche su questo argomento. Se in Russia c’è molto interesse per le quistioni orientali, questo interesse nasce dalla posizione geopolitica della Russia e non da influssi culturali più universali e scientifici” (Q, 1723).
Nella valutazione di Gramsci, occorre registrare la fine della centralità economico-politico-militare europea e l’emersione di una dimensione mondiale più eterogenea (“in realtà ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato «storia mondiale» quella europea con le sue dipendenze non europee”). Quello che risalta, scrutando un orizzonte globale che travalichi il consueto spazio europeo, è il fenomeno nuovo della “«prepotenza» americana”. Occorrono inedite categorie, anche se, con riferimento all’“americanismo”, “non si tratta di una nuova civiltà, perché non muta il carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano”.
Il mutamento epocale dell’acquisita portata mondiale dei fenomeni economico-politici e culturali rende ardua la tenuta di una rivoluzione in un paese. Però anche il destino della “guerra di posizione” in occidente è affidato a un’asimmetria spaziale tra il profilo della sovranità, circoscritto alla dimensione nazionale, e le vicende militari e dei commerci, inafferrabili se non entro un complicato scacchiere globale. La crisi radicale della prima mondializzazione non spinge Gramsci a ripiegare verso il sovranismo (la sua persuasione è che si assiste ad un autentico “impoverimento del concetto di Stato”). Nel tempo presente si allargano le esperienze, crescono le connessioni, si intensificano le relazioni e inevitabilmente “la personalità nazionale è legata ai rapporti internazionali” (Q, 1962).
Lo Stato nazionale, che i Quaderni leggono dal punto di vista genealogico come espressione politico-culturale del moderno bisogno di dare organizzazione politica ad un territorio, mostra la sua provvisorietà, quale ente politico sovrano, dinanzi alla maturazione di un carattere europeo della coscienza politica: “Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale «municipalismo»” (Q, 748).
I fenomeni di integrazione economica e politica sollevano in Gramsci domande significative. Si tratta di lavorare sulla scia di certe sue intuizioni di interprete delle trasformazioni occorse al territorio politicamente organizzato in Stato ma operante ormai entro le dinamiche economico-militari aperte nello spazio mondiale. Ha visto bene G. Baratta (Antonio Gramsci in contrappunto, Carocci, 2007, p. 248) quando ha rintracciato nell’istanza di un “postmoderno principe”, in grado di gestire la costruzione politica di una società̀ civile europea, come uno dei messaggi teorici fondamentali che i Quaderni lasciano in eredità.
(6.Fine)