Il 9 novembre 1979 Giorgio Amendola pubblicò un articolo (“Interrogativi sul caso FIAT”) che investiva polemicamente la condotta della CGIL in fabbrica, per non avere ostacolato le crescenti violenze estremiste, e metteva sotto accusa la politica seguita dal PCI nell’ultimo decennio (dall’autunno ‘caldo’ del 1969) per avere perso di vista la strategia delle alleanze sociali con i ceti medi produttivi isolando la classe operaia su posizioni corporative anziché avanzare una linea di sacrifici salariali per contenere l’inflazione e il relativo debito pubblico.
Due giorni dopo, approfittando di una manifestazione pubblica per la campagna di tesseramento a Roma, Berlinguer contestò frontalmente le critiche di Amendola -con l’esclusione parziale della lotta al terrorismo- accusandolo di negare la prospettiva anticapitalista e di non conoscere “l’ABC del marxismo”. Quell’aggressione ingenerosa al vecchio dirigente e alle sue lungimiranti vedute, anticipava la resa dei conti che sarebbe venuta quattro giorni dopo e avrebbe concluso un drammatico Comitato centrale del PCI dove Amendola venne di nuovo fatto bersaglio di critiche provenienti da elementi minori e corrivi della dirigenza berlingueriana, prima che il segretario generale non concludesse la mattanza di quel nemmeno tanto simbolico processo politico, con le posizioni amendoliane presentate allusivamente nella luce sospetta di una possibile ‘deriva socialdemocratica’.
In verità Amendola aveva messo a nudo le ambiguità e i limiti della politica del PCI sotto la direzione di Berlinguer; limiti, che di lì a poco, avrebbero generato la verticale crisi del sindacato alla FIAT, la perdita progressiva di consensi elettorali fino alla liquidazione del partito che si consumò, dopo il 1989, con lo scioglimento e il cambio del nome. Quella drastica rottura tra Berlinguer e Amendola fu per me occasione traumatica profonda sul piano morale e politico. Avevo fino a quel momento aderito al PCI senza riserve e condiviso fino in fondo la stagione della ‘solidarietà nazionale’, con il progetto relativo del ‘compromesso storico’, della politica di ‘austerità’ e di confronto con il crescente sinistrismo comunistoide, con la guerriglia armata delle Brigate rosse, fino al tragico epilogo del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro.
La differenza di vedute tra Berlinguer e Amendola mi era sempre stata chiara, ma non la giudicavo incompatibile, bensì virtuosamente complementare. Questa speranza si rivelò una pia illusione in quei giorni drammatici del novembre 1979. La rottura non si sarebbe più ricomposta, anche perché Amendola, aggredito da un tumore, nel giro di pochi mesi avrebbe perso la vita e si interruppe la battaglia dentro il PCI come avrebbe voluto. Avrebbero dovuto prendere il testimone quei dirigenti (da Chiaromonte, a Napolitano, a Bufalini, a Lama, e tanti altri) che gli erano sempre stati al seguito, a lui erano politicamente più affini.
Cominciò invece la sequela dei distinguo, dei però, degli aggiustamenti e delle ambiguità diplomatiche che annegarono ogni fermento critico nel conformismo di una pseudo-unità ideologico-politica sotto l’egida berlingueriana. Posso dire che quel 1979 fu per me una stagione di cocente e traumatica disillusione. Giornalista e militante di partito a pieno tempo, svaniva in me l’idea del PCI come forza politica e morale entro cui conciliare il pensiero e l’azione; e così progressivamente, insensibilmente, iniziò un processo interiore di distacco che fu prima morale e politico; e col tempo, culturale e ideologico.
Non accadde in un giorno. Ci vollero anni. Ma la divisione e la scissione che accadde allora nel mio cuore di ‘comunista italiano’ credo possa valere come emblema di ciò che accadde nel cuore di tanti; ed è alla radice della decomposizione progressiva ma inesorabile di quel formidabile motore storico della democrazia repubblicana che fu il PCI.