Per me quella del rifugiato non è una Giornata. È stata e continua ad essere una mission che dà senso alla mia vita. Una mission iniziata con uno sbarco, tanti anni fa. Nel 1998. Allora non ero sindaco, ero una persona impegnata sul piano sociale e politico. Per me era importante ripartire dalle periferie, sperimentare un’altra idea di politica che offrisse una risposta ideale e assieme concreta allo spopolamento dei borghi, le “aree fragili” della Calabria jonica segnate dall’abbandono, marchiate dalla mafia, sfiancate dall’omertà.
Sperimentare da una condizione limite: andare via o rassegnarsi. Quello sbarco ha cambiato la mia, la nostra vita. Consapevoli che quelle che avevano raggiunto le coste calabresi erano persone che l’Occidente aveva reso schiave. Dicono, con un cinismo ipocrita: dobbiamo aiutarli a casa loro. Vergogna! Noi li abbiamo obbligati a intraprendere questi viaggi maledetti che spesso si trasformano in viaggi della disperazione e della morte. Allora, accanto a me, c’era un vescovo straordinario, di una umanità travolgente e contagiosa: monsignor Bregantini. Non finirò mai di ringraziarlo. A fianco dei più indifesi tra gli indifesi: la teologia della liberazione calata nella realtà calabrese. Non dimenticherò mai le parole che disse testimoniando al processo che mi vedeva imputato: attenzione, questa non è una storia criminale.
È una storia profetica. Quello sbarco, segnato dal dolore di una umanità sofferente, si è trasformato in una occasione di speranza, di rinascita di una comunità. Il “modello Riace” l’ho imparato dalle comunità bracciantili, da un senso naturale di rispetto e d’incontro con gli altri da sé. Mi hanno insegnato che non esistono “migranti” ma esseri umani in fuga dalle guerre, dai disastri ambientali, dallo sfruttamento disumano. Persone alla ricerca di una speranza e di un futuro degno di essere vissuto. Questo ho imparato ogni giorno. Finché è diventata la mission del mio essere sindaco. Riace è diventato il paese dell’accoglienza. Si sono scritti libri, fatti film.
Noi abbiamo fatto una cosa semplice: aprire le case che i nostri migranti, negli esodi verso il nord Italia e prim’ancora nei paesi d’oltre oceano, avevano lasciate abbandonate. Non costruire hot spot, ma far convivere le persone nello stesso tessuto cittadino. Questo è il “modello Riace” di cui vado fiero. L’ospitalità diffusa. Altro che “minaccia”. Noi dobbiamo ringraziare queste persone che ci hanno permesso di preservare un patrimonio urbano che altrimenti sarebbe andato perduto, dismesso. Sono cittadini preziosi. Per tutto questo la Giornata del rifugiato io la celebro ogni giorno.
Quello dell’accoglienza è un linguaggio etico, impregnato di valori umani, sociali e per me anche di valori politici. Sì, politici. Perché il primo sbarco era quello di compagni del Pkk. Oggi sarò a Roma per ritirare un premio alla memoria di Dino Frisullo, una persona speciale che porto sempre nel mio cuore, che ha dedicato la sua vita alla questione curda. Quello di Riace, come ebbe a dire Wim Wenders, è un messaggio che vale per il mondo. Un messaggio di solidarietà d’inclusione, di rispetto. Questo è stato il “modello Riace”. L’opposto della pratica vergognosa, criminale dei respingimenti. Atti vili contro la dignità umana, contro i valori della vita.
La destra parla questo linguaggio di odio e di morte. Riace parla il linguaggio dell’umanità, del rispetto dei diritti umani. Abbiamo dimostrato che il rispetto delle persone, dei loro diritti, è possibile ovunque. I disperati di Cutro o quelli morti sulla costa greca potevano essere salvati. La chiusura delle nostre coscienze porta a questo. Potrei finire la mia vita in carcere se verrà confermato il primo grado di giudizio. Ma dico sempre e non smetterò mai di farlo, che sono orgoglioso di quel che ho fatto. A Riace abbiamo dimostrato che il mondo può essere migliore.