Lo scandalo Qatargate
Eva Kaili contro Metsola, cacciata calpestando garanzie democratiche
Quando Eva fu arrestata Metsola parlò inopinatamente di “nemici della democrazia” e “attori malvagi”. Poi la cacciò calpestando le garanzie democratiche
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Eva Kaili non avrebbe dovuto fare causa all’istituzione di cui era vicepresidente, il Parlamento Europeo, se questo non avesse deciso di lasciar correre, e forse istigato, la presunta giustizia che sulla scorta di opache indagini dei servizi segreti ha imprigionato quella donna per sei mesi e poi le ha intimato di non aprire bocca, di non parlare con la stampa, mentre il magistrato che la perseguiva andava in televisione a descrivere le malefatte della politica corrotta.
Poco sorvegliate e già improvvide allora, risuonano ora inascoltabili le parole di Roberta Metsola, la presidente del Parlamento Europeo che sulla notizia di quell’arresto vaneggiava di “nemici della democrazia” e di “attori malvagi”, promettendo che avrebbe “agito in sintonia con le autorità per garantire che tutti i passaggi legali siano rispettati” e “per valutare come i nostri sistemi possano diventare ancora più impermeabili”: il tutto, nello sbalorditivo crescendo di vanità inquisitoria e di zelo poliziesco rispettivamente culminanti nell’assicurazione che “ove necessario, gli uffici siano sigillati” e nella comunicazione di aver personalmente partecipato, accompagnando magistrati e forze dell’ordine, “a una perquisizione domiciliare”.
Evidentemente il rispetto dei passaggi legali includeva la noncuranza per una donna tenuta al freddo, senza accesso ai servizi igienici, con ciclo mestruale in corso, e poi lasciata per settimane a implorare che le facessero vedere la figlia neppure di due anni, la bambina che poi avrebbe visto due volte in sei mesi di detenzione prima del processo, prima che fosse anche solo ipotizzato un comprensibile capo di imputazione: prima, anzi senza, che fossero spiegati i motivi per cui misure giudiziarie tanto gravi dovessero essere disposte e per tanto tempo mantenute.
E il rispetto dei passaggi legali comprendeva poi, evidentemente, l’impassibilità istituzionale europea davanti alla coda velenosa di quella trafila aguzzina, e di cui abbiamo detto sopra: vale a dire l’ordine, rivolto a Eva Kaili, di non azzardarsi a parlare con i giornali. Vedi mai che potesse lasciarsi andare a qualche spiacevolezza sulla giustizia che ha patito e sul collaborazionismo dell’assemblea che l’ha destituita spiegando di voler in tal modo “dare una scossa a questo Parlamento”.
Di ieri è dunque la notizia che Eva Kaili ha deciso di chiamare a giudizio il Parlamento presso cui era stata eletta e di cui ancora fa parte. Denuncia di essere stata sottoposta indebitamente, lei come altri, allo spionaggio dei servizi segreti, in particolare mentre conduceva missioni istituzionali proprio connesse a indagini sull’esistenza di software illegali che monitoravano l’attività di parlamentari e cittadini europei. Vedremo se la denuncia è fondata.
Non pare tuttavia che questa volta i plenipotenziari dell’istituzione interessata siano altrettanto solerti: ma si ammetterà che, se fosse accertato, il fatto attenterebbe all’integrità e alla credibilità del Parlamento ben più gravemente, altro che i borsoni di soldi su cui indugiavano le indignazioni dell’Europa “sotto attacco” e le tremebonde giustificazioni dei colleghi di schieramento che si dichiaravano “parte lesa”. Parte lesa, si noti, non nella constatazione che una propria collega era sottoposta a quel trattamento, ma nel pregiudiziale inchino alla giustizia che provvidenzialmente rimuoveva quella mela marcia.
Ma per tornare alla denuncia di Eva Kaili. Se trovasse riscontro, vorrebbe dire che qui a dir poco non sarebbe stato impedito, e forse sarebbe stato sollecitato, un lavorìo illecito di intelligence che ha sottoposto a controllo esponenti del potere rappresentativo nell’esercizio delle loro funzioni. E c’è da trasalire nel ricordare quanto dichiarava mesi fa ancora la presidente Metsola, e cioè che “i nostri servizi, di cui sono incredibilmente orgogliosa, collaborano da tempo con le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie nazionali competenti per smantellare questa presunta rete criminale”.
I “nostri servizi” che cosa sarebbero? L’interfaccia comunitaria dei servizi segreti di uno Stato membro? Forse varrebbe la pena di tenere a mente che i cittadini europei eleggono dei rappresentanti politici, dei legislatori, non dei manipoli di agenti segreti. E il presidente del Parlamento Europeo dovrebbe dirigere e rappresentare l’assemblea, non stare a capo di “servizi” che collaborano affinché sia assicurata alla galera una parlamentare, la “malvagia” cui si vieta di vedere la figlia di ventidue mesi e cui si ingiunge di tenere la bocca chiusa. Rendere il Parlamento Europeo impermeabile alla corruzione affidandolo direttamente ai magistrati e alla polizia segreta è un espediente che ad alcuni può piacere, ma rinvia a un’idea di Europa non proprio tranquillizzante.