Il dibattito
Cancellare l’abuso d’ufficio è un atto illiberale, ecco perché
Non riguarda solo i sindaci. L’abrogazione integrale rischia di tradursi in una scelta autoritaria: si protegge la PA che con atti arbitrari prevarica i privati. C’è spazio per una depenalizzazione, ma mettete giù l’accetta
Giustizia - di Massimo Donini
È in atto uno scontro tra chi ritiene liberale abolire un reato perché c’è stato un eccesso di incriminazioni, ma non di condanne ingiuste, in particolare per una categoria di autori (i sindaci), che sarebbero troppo processati e troppo inutilmente assolti da accuse che non dovevano essere promosse, e chi ritiene al contrario illiberale questo progetto, perché esso non guarda alle decine e anzi centinaia di altri possibili autori, tutti pubblici ufficiali (o incaricati di pubblico servizio), che potrebbero a seguito di questa depenalizzazione compiere atti di mera prevaricazione sui privati, riportando la pubblica amministrazione a stili di comportamento vessatori e autoritari che sembravano ormai, se non dimenticati, comunque in via di storico superamento.
L’art. 323 c.p. è norma residuale, storicamente confluita in varie altre condotte tipiche abusive dei p.u. o aggravate dall’abuso. Si tratta, peraltro, di più fattispecie che vengono in considerazione, ma in particolare di tre tipologie fondamentali nei rapporti con i privati: i meri favoritismi, i favoritismi con pregiudizio di terzi, e le prevaricazioni. I meri favoritismi (es. si concede un permesso di costruire, una licenza, un beneficio, o si attribuisce un posto, un appalto in modo illegittimo) si limitano a beneficiare un terzo senza pregiudizio di altri.
I favoritismi possono peraltro anche recare danno a terzi concorrenti (es. si concede un ruolo pubblico o un contratto pubblico a un soggetto con pregiudizio di altro più meritevole o titolato), e dunque sono in tal caso atti dannosi che producono disuguaglianze di trattamento. Infine, ci sono le condotte di mero pregiudizio o prevaricazione verso terzi, che producono solo danni al cittadino, arrecati però in modo volontario. Queste ultime sono le più odiose, quelle dove il consociato è particolarmente esposto al potere pubblico, perché è in uno stato di giuridica soggezione.
Tutte e tre queste tipologie di condotte sono oggi vietate e sanzionate dall’art. 323 c.p. che si intende abolire. A parte vanno poi ricordate le condotte di abuso che offendono solo la p.a. perché il p.u. usa l’ufficio per interesse proprio. È dunque un ventaglio assai ampio di condotte. Le prime due tipologie di favoritismi, peraltro, si commettono intenzionalmente (è sempre richiesto un dolo intenzionale) attraverso atti giuridici, o condotte reali per lo più celate da motivazioni apparenti e logiche, non attraverso meri comportamenti.
Sono dunque atti o fatti giuridici, provvedimenti etc. che danno luogo a controversie amministrative anche complesse e che possono restare regolate in sede extrapenale, qualora non siano aggravate da altri tratti (violenza, corruzione o grave pregiudizio al buon andamento della p.a.). Invece la terza tipologia, pur potendo manifestarsi attraverso atti e provvedimenti, è assai più direttamente lesiva di diritti o interessi legittimi del cittadino, potendo realizzarsi mediante meri comportamenti arbitrari. Possiamo dire che l’arbitrarietà e la prevaricazione sono il contrassegno di questa tipologia, pur potendo connotare anche le altre sopra descritte. Che l’art. 323 c.p. riguardi solo i sindaci, è una bufala giornalistica e politica che la dice lunga sulla maturazione del metodo legislativo e sull’uso strumentale dell’informazione giuridica.
Un carcerato viene arbitrariamente e intenzionalmente escluso da ora d’aria, visite di parenti, visite mediche, ricreazione, esercizio di diritti, senza violare l’art. 608 c.p. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti). Il professore universitario consente di entrare in ruolo nel suo ateneo solo ai propri mediocri allievi sottovalutando abusivamente candidati più titolati. Un paziente non riceve la normale assistenza in una R.E.M.S., ma subisce prevaricazioni consistenti in uso massiccio di sonniferi, mezzi di contenzione e isolamento non giustificati da necessità terapeutiche. Il primario ospedaliero demansiona un aiuto medico perché non dirotta alcuni pazienti verso la sua clinica privata.
Un poliziotto infierisce intenzionalmente con abusi comportamentali (atti arbitrari) contro soggetti controllati, barboni, passanti ubriachi, gruppi di persone che disturbano, tossici, prostitute, non arrestati. Un pubblico ministero avvia una indagine penale contro persona invisa per mera ritorsione, senza astenersi, e anzi usando l’ufficio per fini personali. Un magistrato assegna incarichi peritali solo a parenti e amici di una associazione, violando ogni criterio legale di distribuzione. Che vadano al Tar, paghino il contributo unificato, magari raddoppiato nel frattempo, e aspettino, dopo anni, che l’atto, se annullato, venga nuovamente emesso per essere eventualmente di nuovo impugnato. E se non si è trattato di un vero atto giuridico, ma di un comportamento, o di atto del magistrato, si affidino alla responsabilità disciplinare.
Dunque, chi potrebbe sentirsi protetto da una legislazione priva dell’abuso di ufficio nella parte in cui punisce la volontaria violazione di legge da parte del soggetto pubblico, che rechi intenzionalmente a terzi un danno ingiusto? Credo solo il pubblico ufficiale che abusa.
A questo punto si comprende perché una abrogazione integrale della fattispecie rischi di trasformarsi in una scelta autoritaria, che privilegia e protegge la pubblica amministrazione che con atti arbitrari prevarica i privati. Il P.N.R.R. non c’entra con questa scelta e chi lo invoca non ha valutato la complessità e varietà di una incriminazione che non può essere riformata con l’accetta del boscaiolo, ma, come ormai sempre, dato il tecnicismo di ogni cosa, con interventi di micro o macro ingegneria giuridica.
Si noti poi che un esito di larga depenalizzazione, in caso di atti discrezionali del p.u., si è già realizzato nel nostro sistema dopo la riforma dell’abuso di ufficio del 2020, che lo ha limitato, fra l’altro, alla violazione di regole di legge “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. E alcuni casi già menzionati potrebbero già oggi non rientrare nell’art. 323 c.p. Solo alcuni comportamenti residui potrebbero rilevare per altre fattispecie: e vi sarebbero fatti rientrare in caso di abolitio o depenalizzazione. Sarebbero invece del tutto depenalizzati gli abusi del p.u. a favore di se stesso (per es. l’amministratore che, omettendo di astenersi, si attribuisca il bene di un’asta pubblica da lui gestita, sia pur per interposta persona): fatto a questo punto di rilievo solo disciplinare.
Rimane poi, sul tappeto, il versante dei favoritismi “dannosi” che si realizzino attraverso specifiche violazioni di legge in atti non discrezionali. Un paese con un’etica pubblica diffusa, diversa dalla paura del penale, potrebbe permettersi più facilmente di affidare alle sanzioni extrapenali la prevenzione di queste condotte. Chi però ha a cuore lo sviluppo di una legislazione più liberale, meno oppressiva, può accettare bilanciamenti maggiori tra libertà e arbitrio, diversi dalla criminalizzazione e salvo figure più tipizzate di illecito, non basate su mera illegalità e disparità di trattamento. C’è dunque spazio per ampie depenalizzazioni.
Invece il problema dei sindaci troppo indagati e poi assolti è squisitamente processuale, perché non contiene né impone una censura alla incriminazione, che è un reato presente in molti ordinamenti europei in versioni spesso assai meno precise. È poi certo che la definitiva evaporazione dell’abuso non pone l’indagato al riparo dalla tentazione dei pubblici ministeri di fare rientrare le condotte sinora descritte entro fattispecie più gravi. L’idea che si debbano abolire le leggi penali che recano con sé poche condanne (ma che non lo siano quelle per abuso di ufficio lo illustra bene C. Pagella, in Sistema penale, 17 giugno 2023) è del tutto miope e illusoria: sono ben modeste nelle raccolte di giurisprudenza le sentenze di responsabilità per i delitti di strage, di epidemia, di avvelenamento di acque, o per vari disastri. Per non parlare di tanti reati economici.
Eppure, si tratta di leggi che presidiano beni importanti, che producono condotte più virtuose o attente per il solo fatto di esistere, anche se questa prevenzione positiva non è “misurabile”. Ma nel caso degli abusi ogni p.u. sa bene quanti ne potrebbe impunemente commettere in caso di abrogazione del reato. Se dovessimo valutare la prevenzione sul numero delle condanne potremmo abolire davvero più di metà dei reati puniti con la reclusione: sono poche decine le fattispecie che mediamente portano davvero al carcere. È la detenzione, semmai, a dover essere abolita in vari casi. Occorre tuttavia mantenere la responsabilità per fatti gravi, e non per fatti quasi bagatellari o di carattere civile-amministrativo, come molti comportamenti abusivi dei p.u. Per questo la selezione non può essere affidata ad abrogazioni secche, ma a un mixtum compositum di discipline sostanziali e processuali.
Oggi esistono strumenti di rilievo che sono quelli dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, e della valutazione delle probabilità di successo di un’accusa portata fino al grado del giudizio dibattimentale. Si possono responsabilizzare i magistrati per un uso non inflazionistico dei processi. Ma questa selezione impegna diversamente sia il Parlamento, che dovrebbe fissare i criteri di priorità anziché affidarli integralmente ai capi dell’ufficio (art. 3-bis disp. att. c.p.p.), e sia la magistratura, che non deve compiere operazioni statistiche di burocrazia accusatoria, e applicare il principio di sussidiarietà (extrema ratio) anche nell’esercizio dell’azione penale.
È grave che si sia arrivati a pensare di abolire integralmente un reato come l’art. 323 c.p. perché la magistratura inquirente, ma spesso anche quella giudicante (è reato di competenza del Tribunale collegiale, con il “filtro”- sic dell’udienza preliminare) lo ha usato senza criteri selettivi: una sanzione politica che non deve pregiudicare i diritti protetti dalla norma. Invece, mandare a tutti i p.u. il messaggio della libertà da controlli punitivi lascia scoperto quel nervo sensibilissimo dei rapporti tra cittadino e pubblici poteri che proprio in Italia appaiono afflitti da stili profondamente autoritari.