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Cimitero dei feti, il Garante della privacy sanziona Campidoglio e Ama: “violazione del diritto all’anonimato

Cimitero dei feti, il Garante della privacy sanziona Campidoglio e Ama: “violazione del diritto all’anonimato

Due anni fa la scoperta dell’esistenza del “cimitero dei feti” al Flaminio di Roma destò molto scalpore. Non solo per quella pratica di sepoltura avvenuta all’insaputa delle donne che si erano sottoposte all’aborto, ma anche e soprattutto per la possibile identificazione di queste ultime che si trovarono i loro nomi affissi sulle piccole croci bianche del campo. Una sorta di pubblica ‘crocifissione’ da parte di chi non condivide l’idea che l’aborto sia un diritto. Dopo più di due anni dall’esplosione del caso che poneva molti dubbi sulla legittimità dell’intera operazione, il Garante privacy ha sanzionato per 176mila euro Roma Capitale e per 239mila euro Ama, società in-house cui è affidata la gestione dei servizi cimiteriali, per aver diffuso i dati delle donne che avevano affrontato un’interruzione di gravidanza, indicandoli su targhette apposte sulle sepolture dei feti presso il Cimitero Flaminio. Ammonimento per la Asl Roma 1.

La vicenda era salita agli onori della cronaca nell’ottobre del 2020. Le immagini delle piccole croci bianche con i nomi delle donne affisse sopra avevano fatto il giro del mondo. Il diritto di tutte le donne veniva così calpestato. Ora la decisione del Garante della Privacy sancisce definitivamente che azioni di questo tipo in Italia non siano più ammesse. Da nessuna parte. “Dopo due anni di denunce, udienze, inchieste giornalistiche nazionali ed internazionali che, con la campagna Libera di Abortire, abbiamo promosso per sostenere le centinaia di donne che dopo aver abortito a Roma hanno scoperto il loro nome su una croce cattolica al Cimitero Flaminio di Prima Porta, oggi viene resa pubblica una pronuncia storica del Garante per la protezione dei dati personali che condanna Roma Capitale al pagamento della somma di 176mila euro per la diffusione illecita di dati relativi alla sfera di riservatezza e salute delle donne, riconoscendo al contempo le responsabilità di Ama e della Asl Roma 1 nella violazione del diritto all’anonimato”. Così in una nota Giulia Crivellini e Francesco Mingiardi, avvocata e tesoriera di Radicali Italiani e avvocato della causa per la campagna Libera di Abortire.

“Era l’8 marzo del 2021 – spiegano ancora – quando, in difesa di Francesca Tolino, una delle prime donne che scoprì l’esistenza di una croce a suo nome, depositavamo presso il Tribunale civile di Roma l’azione popolare contro l’azienda ospedaliera San Giovanni, Ama e Asl con l’obiettivo di fermare la pratica illegale della sepoltura dei feti senza il consenso della donna e in violazione della privacy. A seguito delle evidenze emerse negli atti processuali della nostra azione civile presso il Tribunale di Roma riteniamo la pronuncia del Garante per la Privacy un’enorme vittoria per le migliaia di persone che, non solo a Roma, vedono calpestati i propri diritti. In questi anni abbiamo posto le armi del diritto al servizio dei diritti, anche e soprattutto di quelli riproduttivi, per ricordare che la nostra libertà di scelta non può ritrovarsi crocifissa e negata in una qualsiasi fase dell’interruzione volontaria di gravidanza. E continueremo a farlo. Le nostre conquiste a Roma – concludono insieme a Francesca Tolino – segnano un precedente chiaro per tante altre amministrazioni italiane rispetto a procedure che ancora oggi diventano occasione per scorrettezze colpose o dolose nei confronti di diritti garantiti dalle leggi”.

“La sanzione del Garante della privacy riconosce che nessuna logica né ragione giuridica si può ravvisare nell’apposizione sulle tombe di un’etichetta recante il nome e cognome di una donna ancora in vita“. Lo afferma Ilaria Boiano, avvocata di Differenza Donna. “Si coglie la portata violenta di una prassi che ha deliberatamente esposto al pubblico l’identità di centinaia di donne che negli anni si sono sottoposte alle procedure previste dalla legge 194/78”, continua Boiano. Fu proprio l’associazione Differenza Donna a presentare un esposto sulla vicenda, quando chiese alla Procura di indagare “le responsabilità evidenziando la violenza istituzionale derivante dalla pratica nei confronti delle donne per aver fatto ricorso all’aborto”. L’esito non fu quello sperato, spiegano, infatti pur riconoscendo che “alcun dubbio sussiste circa l’astratta integrazione delle fattispecie oggettive dei reati ipotizzati”, il Tribunale di Roma aveva accolto “la richiesta di archiviazione della Procura del procedimento penale a carico del personale sanitario e dell’Ama per la confusione esistente sulla regolamentazione locale in materia di sepoltura”. “Riletta a partire da questa vicenda, continua l’avv. Ilaria Boiano, la riservatezza in caso di aborto può essere riconfigurata in termini più complessi del mero diritto “to be left alone”: essa ricomprende la sfera personale di ciascuna e implica non solo un dovere di astensione dello Stato, ma declina il senso di controllo personale sulla propria esperienza di vita, che non può essere compresso in alcun modo“, conclude.