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Diritti dei rifugiati e la truffa dei paesi discarica

Diritti dei rifugiati e la truffa dei paesi discarica

Non è agevole districarsi nella selva di proposte che il Consiglio dell’Unione Europea ha votato l’8 giugno scorso in relazione ai più delicati testi di riforma normativa sul sistema di asilo in Europa. Abbiamo esaminato nell’edizione del 13 giugno dell’Unità la (non) proposta di riforma complessiva del sistema di asilo nell’UE con la connessa (non) riforma del vigente Regolamento Dublino III. Esaminiamo ora i punti focali della proposta di istituzione di nuove procedure comuni in materia di asilo (con conseguente abrogazione della vigente Direttiva 2013/32/UE).

Anche in questo caso la proposta del Consiglio (fascicolo 10083/23) si pone in netta contrapposizione con il testo di riforma votato dal Parlamento Europeo, relatrice la parlamentare Fabienne Keller, testo che a parere di chi scrive costituiva già un risultato di sintesi assai modesto, e che il Consiglio peggiora al punto di stravolgere l’impianto di fondo. Domande inammissibili, domande irricevibili, domande manifestamente infondate; e ancora, procedura di frontiera, procedura accelerata, protezione effettiva (in altri paesi), paese terzo sicuro e paese di origine sicuro (come verrebbero ridefiniti rispetto al quadro giuridico vigente) rappresentano un coacervo di nozioni giuridiche la cui definizione rimane volutamente vaga.

Torcendo il principio di tassatività della norma si prova a realizzare, o meglio dare veste normativa alla tendenza che segna la politica europea degli ultimi anni: il tentativo di limitare fino a negare la possibilità effettiva di chiedere e di godere asilo in Europa. Come? Attraverso da un lato la dilatazione di procedure di frontiera e di trattenimento generalizzato dei richiedenti asilo e dall’altro il confinamento dei rifugiati in paesi esterni all’Unione europea a noi legati dal meccanismo del bastone e della carota, che devono accettare (per quanto tempo e con quali conseguenze?) di tenersi i rifugiati che non vogliamo, fingendo di fornire agli stessi rifugiati una sorta di protezione legale e sociale.

Per attuare tali obiettivi è necessario disfarsi però dei testi normativi vigenti che risalgono ormai a una decina di anni fa che, nonostante il loro impianto sia ben poco garantista, oggi vengono considerati gravi ostacoli al libero dispiegarsi della volontà di larga parte degli stati europei di comprimere a tal punto il diritto d’asilo fino a renderlo di fatto inesigibile. Poiché infatti tale diritto non si può sopprimere senza apertamente rinnegare gli stessi fondamenti su cui nasce l’Unione, è necessario giungere a un minimo ed innocuo livello di mantenimento in vita di tale diritto; un livello che, per continuare la metafora medica, potremmo definire di tipo vegetativo.

Le strade di tale disegno sono plurime, a partire dallo stravolgimento dell’attuale nozione di paese terzo sicuro e dalla parallela invenzione di una nuova rozza nozione definita “protezione effettiva” (art. 43a della proposta del Consiglio) che verrebbe garantita se il paese terzo, denominato sicuro, attua “il rispetto della convenzione di Ginevra”; nel caso tuttavia la Convenzione sia ineffettiva a causa dell’applicazione delle limitazioni geografiche, non fa nulla: è sufficiente che lo straniero possa “rimanere nel territorio di tale stato”, senza definire in alcun modo quale sia il livello minimo di protezione giuridica di cui può godere, possa accedere “a mezzi di sussistenza”, alle cure mediche, ma solo a quelle “essenziali” e alla “istruzione elementare”. D’altra pare non si può chiedere di più a quegli Stati disponibili a fare, a pagamento, il nostro parcheggio o la nostra discarica.

Il modello di confinamento nato con l’accordo di fatto tra Unione Europea e Turchia dal 2016 diviene dunque il parametro di riferimento generalizzato. Per definire una nazione dove rinviare i rifugiati come paese terzo sicuro deve esistere “un legame tra il richiedente e il Paese terzo in questione in base al quale sarebbe ragionevole per la persona in questione recarsi in tale Paese” (art.45 della proposta). Come indebolire tale già incerta nozione di legame trasformandola in una qualsiasi forma di “connessione” tra lo straniero e tale paese, come ha chiesto con insistenza il governo italiano? Alla vigilia dei lavori la presidenza svedese aveva prima inserito e poi (momentaneamente?) depennate, le parole “anche perché il richiedente ha transitato in tale Paese terzo”.

Con quest’ultima proposta si sarebbe cancellato di fatto il diritto d’asilo inteso come diritto di chiedere e godere asilo in un paese europeo, perché sarebbe stato sufficiente che il rifugiato fugga da un paese non confinante con l’Unione per potere individuare il paese-discarica dove il rifugiato era transitato prima di arrivare in Europa e fare un accordo per rinviarvi il malcapitato. Un simile approccio dovrebbe essere già di per sé sufficiente a provocare disgusto morale, ma devo purtroppo far notare che, erroneamente, molti hanno pensato che stiamo parlando di persone la cui domanda di asilo è stata esaminata in modo equo e completo ed infine è stata rigettata in via definitiva prima di finire nel paese-discarica.

Non è così; la domanda di un richiedente asilo che provenga da un paese terzo definito sicuro nell’accezione sopra indicata, nella proposta del Consiglio verrebbe dichiarata “inammissibile” e dunque “non viene esaminata nel merito” (art. 37). Indistintamente quindi, sia coloro che hanno tutti i requisiti per godere del diritto d’asilo, sia coloro che non ce l’hanno, verrebbero subito inviati nel paese-discarica. Appare evidente la rotta di collisione di tali proposte, che ci si può solo augurare rimangano tali, con il diritto d’asilo garantito dall’art. 10 terzo comma della Costituzione quale diritto fondamentale da esercitare “nel territorio della Repubblica” da parte dello “straniero cui sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

Veramente non pare possibile che simili aberrazioni siano state scritte, discusse, difese, e infine votate in una sede istituzionale europea, con il consenso, non dico del governo italiano in carica, dal quale nulla di sensato ci si può attendere, ma di altri governi europei che sembrano rifarsi a più solidi ideali democratici. Nel medesimo testo del Consiglio si propone che una domanda di asilo sia considerata irricevibile e che quindi non venga esaminata nel merito anche quando “è implicitamente ritirata”. In Diritto esiste la nozione di comportamento concludente ma essa ha un chiaro significato che non appare applicabile nel caso il richiedente “senza un giustificato motivo, si è rifiutato di rispondere alle domande durante il colloquio” (art. 29).

A parte la radicale assenza di una base logica nel considerare il rifiuto di rispondere a delle domande con il ritiro di una richiesta di asilo, chi ha proposto tale misura è consapevole della vaghezza della fattispecie che vuole introdurre e dell’inaudito rischio di abusi che essa nasconde? Si propone anche che la domanda di asilo sia esaminata in procedura accelerata, con garanzie ridotte al minimo, in una pluralità di ipotesi tra le più disparate, andando dai motivi di sicurezza pubblica, alla tardività nella presentazione della domanda fino ad “aver fornito dichiarazioni incoerenti e contraddittorie o dichiarazioni che contraddicono le informazioni pertinenti e disponibili sul paese di origine” (art.40). Mi chiedo in relazione a quest’ultima ipotesi se i proponenti di tali procedure abbiano contezza della letteratura scientifica relativa agli effetti della cosiddetta “memoria traumatica” sulle vittime di esposizione a gravi violenze che evidenzia come sia frequente che proprio tali soggetti presentino ricostruzioni distorsive ed incoerenti dei fatti che li riguardano.

In questo zibaldone che è la proposta del Consiglio dove si può pescare di tutto a piacimento, compare anche la previsione di applicare la procedura accelerata al richiedente proviene da uno Stato “per il quale la percentuale di decisioni dell’autorità accertante che concedono la protezione internazionale è, secondo gli ultimi dati Eurostat medi annuali disponibili a livello dell’Unione, pari o inferiore al 20%”. Si legga bene: è scritto 20% e non ad esempio 2% o 5%. A parte lo scivolone giuridico (o freudiano?) nell’usare il termine “concedere” la protezione quando la procedura d’asilo è invece un procedimento giuridico di “riconoscimento” di un diritto che i pubblici poteri non concedono affatto, ma sono tenuti a riconoscere come preesistente in capo all’individuo, bisogna chiedersi quale valore sia attribuibile a una proposta che modifica i livelli di garanzia non sulla base della fondatezza delle ragioni esposte nell’istanza, bensì sulla base di variabili medie statistiche sugli esiti delle domande di asilo presentate da coloro che provengono da un dato Paese.

Veniamo ora alla proposta la cui rubrica è denominata “condizioni per la procedura di frontiera” (art.41). Con essa si prevede che si possa “esaminare una domanda nell’ambito di una procedura di frontiera se tale domanda è stata presentata da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide che non soddisfa le condizioni per l’ingresso nel territorio di uno Stato membro di cui all’articolo 6 del regolamento (UE) 2016/399”. Di quali condizioni si tratta? Quelle, previste nel Codice Schengen, di possedere “un documento di viaggio valido che autorizza il titolare ad attraversare la frontiera” e di “mezzi di sostentamento sufficienti”.

Esattamente il contrario di ciò che accomuna nella Storia tutti i rifugiati che fuggono dove e come possono lasciando per sempre dietro di sé, se li avevano, averi e documenti. La stessa concreta condotta del richiedente sarebbe irrilevante poiché la procedura di frontiera si applicherebbe anche a coloro che spontaneamente e senza indugio presentano domanda di asilo alla frontiera, nonché a coloro che sono arrivati “in seguito allo sbarco nel territorio di uno Stato membro dopo un’operazione di ricerca e salvataggio”.

I richiedenti asilo soggetti alla procedura di frontiera “non sono autorizzati a entrare nel territorio di uno Stato membro” e possono essere detenuti fino in apposite strutture collocate “alla frontiera o nelle zone di transito” (art.41 bis) o all’interno del territorio. Nuovamente si prevede che la compressione dei diritti fondamentali della persona e persino il diritto alla libertà personale, presidiato nel nostro ordinamento dall’art. 13 della Costituzione, divenga la regola e non come dovrebbe essere, una misura di extrema ratio.

Le persone trattenute durante la procedura accelerata di esame della loro domanda di asilo alla frontiera “possono continuare ad essere trattenute al fine di impedire l’ingresso nel territorio dello Stato membro, preparare il rimpatrio o eseguire il processo di allontanamento” (art. 41 nonies). Detto allontanamento non si configurerebbe come un provvedimento di espulsione attuabile con le garanzie, anche giurisdizionali, previste dalla Direttiva 2008/115/CE (direttiva rimpatri) bensì, grazie alla grossolana finzione del non ingresso, come un più agile, veloce e meno problematico respingimento alla frontiera.

Le proposte del Consiglio qui sommariamente esaminate tradiscono un substrato culturale impregnato da un’ossessiva ideologia securitaria e delineano un sistema che senza enfasi può essere definito concentrazionario nel quale le tutele giuridiche sono ridotte al minimo.
Di fronte alla domanda che qualcuno potrà avanzare su quale natura e origine abbia l’oscura follia che attraversa in questo momento buona parte della politica sulle migrazioni in Europa, mi fermo, privo di una risposta.