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La condanna di Davigo apre una faida tra toghe: “Vendetta del gup Marino”

La condanna di Davigo apre una faida tra toghe: “Vendetta del gup Marino”

Ormai sono tutti contro tutti, e la condanna all’ex magistrato Piercamillo Davigo ha scoperchiato un verminaio di scontri feroci tra toghe, come se non fosse stato sufficiente quello che aveva denunciato con i suoi libri Luca Palamara, che era stato uno di loro. Al centro sempre quel luogo di potere e soprusi della Procura di Milano, quella che fu. Quella che fu fortino di Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra del sindacato. Quella degli eroi intoccabili di Mani Pulite.

Quella dove regnava il rito ambrosiano, troppo spesso disinvolto su regole e procedure. Ma è un romano, Giuseppe Marra, a buttare oggi il sasso in piccionaia con un’intervista a La Verità in cui accusa un suo collega della capitale, il giudice Nicolò Marino, di aver agito per ritorsione nei suoi confronti. Il fatto preoccupante è che l’accusa (aspettiamo sviluppi), fatta da un magistrato nei confronti di un altro nella sua veste di gup, pare un fatto normale. Come se non stessimo parlando di amministrazione della giustizia, ma di una faida politica o peggio ancora di uno scontro tra persone di malaffare.

In che modo c’entra Davigo? C’entra, così come c’entrano il processo a Brescia che lo ha condannato, e anche un bel gruppo di toghe tra Roma a Milano. Il giudice chiamato in causa da Marra è il gup di Roma che ha assolto l’ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contraffatto, dall’accusa di calunnia. Ma non si è limitato a questo, il magistrato. Il gup con quel provvedimento ha anche inviato alla Procura due nominativi, quelli di Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini, perché fossero sottoposti a indagine. Ambedue a loro volta magistrati, il primo attualmente collocato al Massimario della Cassazione, il secondo procuratore aggiunto a Roma (infatti la sua posizione sarà trasferita a Perugia).

I reati per i quali sono indagati sono omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e, solo per il primo di loro, distruzione di corpo di reato. Si torna sempre lì, a Milano, alla maledizione (per la procura) dei processi Eni e alla famosa deposizione del faccendiere Piero Amara. Il quale era considerato da tutto l’ufficio, a partire dal suo capo Francesco Greco e dal rappresentante dell’accusa nel processo contro il colosso petrolifero, Fabio De Pasquale, un testimone di platino, intangibile. La sentenza di assoluzione dei vertici di Eni sarà una botta che farà scricchiolare per sempre quella gestione della procura e la reputazione dello stesso Francesco Greco. Il quale andrà in pensione un po’ ammaccato, se pur subito consolato con un ruolo di tutore della legalità al Comune di Roma.

Il processo Eni e l’assoluzione dei suoi vertici esploderà come una bomba e disvelerà un’intera storia e certi metodi del sistema ambrosiano non proprio trasparenti. La possiamo sintetizzare così. Un sostituto procuratore, Paolo Storari, ha nelle mani una deposizione dell’avvocato Amara il cui si parla di una potente loggia massonica di nome “Ungheria”, composta di magistrati, alti ufficiali e altri uomini di potere, dedita a condizionare la vita economica e politica d’Italia. Tra questi ci sarebbero anche due membri del Csm, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti. Storari vuole aprire un fascicolo, Greco tergiversa.

Si capirà solo in seguito che il testimone è troppo prezioso per il processo Eni e che è meglio non agitare le acque con una testimonianza che può farlo incriminare per calunnia e autocalunnia. Il caso Davigo nasce di lì, in uno scontro con l’ex collega del pool Mani Pulite, che nel frattempo è diventato capo dell’ufficio, mentre “Piercavillo” è membro del Csm. L’arroganza dell’ex pm, che lo porterà fino a essere condannato per rivelazione di atti d’ufficio, è nata dal suo approdo all’organo di autogoverno della magistratura o non è invece solo una coda, una prosecuzione dell’intoccabilità consentita agli uomini dell’ex pool? Fatto sta che Davigo si mette a volantinare quella deposizione, che è un atto riservato e segreto, a mezzo Csm e al vicepresidente David Ermini, pregandolo di riferirne anche al Capo dello Stato.

Coinvolti anche il procuratore generale Giovanni Salvi e il presidente della commissione antimafia Nicola Morra. Con metodi da barbe finte, telefonini silenziati e appuntamenti nel vano delle scale, anche. Mezzo mondo, insomma. E tutti tacciono, pur avendo tra le mani una potenziale bomba. Qualcuno, come Ermini e Marra, dice di aver buttato via i fogli. Ma non se ne saprà niente finché non sarà un altro componente del Csm, Nino Di Matteo, a denunciare il fatto nel plenum del Consiglio. E tutti, nel processo di Brescia, si presentano come testimoni.

Ma due di loro, Marra e Cascini, scoprono di essere indagati, uno a Roma e l’altro a Perugia, su iniziativa del gup Marino. Perché solo loro due, visto che mezzo mondo, togato e non, ha toccato la bomba Amara? E visto che la notizia di quelle carte scottanti era arrivata fino al Quirinale? Non dimentichiamo che stiamo parlando di pubblici ufficiali, obbligati per legge. La spiegazione di Marra nell’intervista alla Verità è sconcertante: siamo stati scelti solo noi due perché avevamo impedito al collega Marino di diventare procuratore aggiunto a Caltanissetta. Quindi: vendetta tremenda vendetta!

Dobbiamo dedurre che esistono magistrati i quali prendono decisioni sulla base di proprie antipatie personali? O peggio ancora mettono in campo, mentre indossano la toga e amministrano la giustizia in nome del popolo, ritorsioni e vendette? Immaginiamo che questa vicenda avrà ancora uno o più seguiti. Ma, se non è stato bello vedere Davigo che inseguiva l’ex amico Ardita e ora Marra che se la prende con Marino, preoccupa anche il fatto che questa vicenda finisca anche con il lambire il ruolo dello stesso presidente Mattarella. Che era stato informato di questa situazione di illegalità, come ha confermato lo stesso ex vice del Csm, Davd Ermini, e che si era limitato ad ascoltare.