Il nuovo libro
Da Leone XIII a Sturzo: così la Chiesa si fece partito
Dalla breccia dell’enciclica si apre il varco per l’impegno in politica che culmina pochi anni dopo nel Partito popolare
Cultura - di Franco Vittoria
Lo stralcio che proponiamo qui di seguito è parte del libro “I cattolici e la questione politica” (editoriale Scientifica) di Franco Vittoria, docente di Istituzioni politiche all’università Federico II di Napoli. L’obiettivo del libro è di far emergere il cammino del cattolicesimo politico attraverso il continuo dilemma tra Chiesa e libertà. Il libro affronta l’opera della ricostruzione “ideologica” del cattolicesimo, dove emerge la figura dell’intellettuale francese Jacques Maritain. Con il pensatore francese termina l’assioma “cattolicesimo uguale a conservazione” e si inizia a ragionare elaborando una nuova idea di “cristianità politica”.
Il progetto di una “nuova cristianità” incrocia senza dubbio l’enciclica leoniana “rerum novarum”, nella quale prende forma una nuova rappresentanza per i militanti cattolici. Il libro di Franco Vittoria affronta il cammino storico-istituzionale dei cattolici attraverso la dimensione religiosa, fino a interrogarsi in quali forme le idee cristiane in questo tempo nuovo si faranno carne. A seguire un ampio stralcio del secondo capitolo, intitolato Le radici del cattolicesimo politico, le encicliche sociali.
Con l’enciclica Rerum novarum prende forma per i cattolici impegnati in politica una nuova forma di rappresentanza per i militanti della “nuova cristianità”. Fondamentale è il pontificato di Leone XIII, il suo interesse per gli studi sociali sono un viatico per “riorganizzare” una nuova missione dei cattolici che guardano con una nuova dimensione alla vicenda operaia. Già con l’enciclica Inscrutabili Dei consilio del 21 aprile 1878, solo pochi mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio affermava nel disprezzo e nel rifiuto di quella santa ed augustissima autorità della Chiesa, che a nome di Dio presiede al genere umano e di ogni legittimo potere è vindice e tutela. Così come nella successiva enciclica Quod apostolici muneris del 28 dicembre 1878, Leone XIII si “oppone” alle teorie del socialismo e del nichilismo poggiando sulla sapienza cattolica.
La Chiesa, affermò Leone XIII, riconosce che nel possesso dei beni c’è disuguaglianza tra gli uomini e aggiunge che il papa non può dimenticare la causa dei poveri. Il pontificato di Leone XIII guarda con grande interesse a come elevare la causa dei poveri a nuova missione della Chiesa, costruendo case ed ospedali per avere la massima cura di questa nuova cristianità. È un tempo nuovo quello che disegna il pontificato di Leone XIII. «Le critiche dei padri gesuiti – osserva De Rosa ne L’opera dei congressi – e le encicliche leoniane sulla questione operaia, astrattamente considerate, appaiono inadeguate a risolvere i problemi della miseria e dell’emancipazione operaia sollevati dall’individualismo moderno e dallo svolgimento di un’economia privatistica fondata sulla legge del profitto. In effetti quelle critiche non rappresentarono in sé un manifesto, un programma economico; non pretesero di essere un formulario di scienza economico-sociale. La loro forza stava nella premessa, cioè nella condanna della pregiudiziale privatistica e borghese come criterio assoluto del fenomeno economico, stava nella denuncia del divorzio che la “rivoluzione libera- le” aveva operato tra città e campagna, tra economia e legge morale, tra società civile e religiosa, stava nel rifiuto del lavoro come merce, come condanna della vita dell’uomo alla schiavitù della macchina e dei processi accumulativi dell’economia borghese. Il socialismo e il nichilismo non erano “mali in sé”, ma “mali” nati dalla borghesia, che aveva sottratto alla Chiesa le grandi masse operaie, masse che però ora i governi non riuscivano più a controllare e a contenere. Il papa invece dava rimedio a questo “male”, il ritorno tutto intero, integrale della società, nei suoi servizi e nei suoi specifici attributi moderni, sotto la tutela della Chiesa».
Insomma, la Rerum novarum significò un grande balzo in avanti e soprattutto incarnò un nuovo modo di essere dei cattolici nei confronti della questione operaia, incarnando anche una presa di coscienza per il miglioramento della questione degli operai. Una vera e propria rivoluzione culturale per i tempi che fa dire a Luigi Sturzo che si sentiva figlio della libertà cristiana: «Destò […] gran meraviglia – dice Sturzo nel discorso del 1903 a Caltagirone su Leone XIII e la civiltà moderna – quando questo vecchio di circa 82 anni, nel 1891 pubblicò l’enciclica Rerum novarum sulla condizione degli operai, e parve allora, nell’agitarsi delle teorie che presiedono allo sviluppo di questa nuova corrente sociale, parve quasi socialistica, e persino i governi ancora liberali, anche ecclesiastici, di questa nuova forza unita al popolo; e dalle lontane Americhe si volevano scon-fessati i cavalieri del lavoro e dell’Austria vicina i cristiani sociali di Lueger, e dalle nazioni latine i democratici cristiani».
La Rerum novarum incise in modo significativo in tutti movimenti democratici cristiani europei e rafforzò l’azione dei preti e dei militanti cattolici che si sentivano legittimati a difendere le ragioni degli operai e non quelli dei padroni. L’Enciclica più importante di Leone XIII non fu una ricerca improvvisata della questione sociale «[…] ma il sigillo della suprema autorità a una dottrina lentamente ma sicuramente svi- luppatasi per merito dello studio e dell’attività di dotti e ardimentosi membri della gerarchia e del laicato cattolico», annota mons. Giovanni Antoniazzi ne L’Enciclica «Rerum novarum». Testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali. La Rerum novarum maturò nei vari dibattiti che i cattolici non solo italiani, ma francesi piuttosto che tedeschi organizzarono in giro per l’Europa, e questo significò un nuovo sentire da parte della Chiesa. Troppe erano le agitazioni sociali e la povertà che coglieva milioni di persone, non poteva la Chiesa rimanere spettatore di una umanità che apriva problemi intensi alla religione.
«Rispetto anzi a questi fenomeni, allo stato della questione sociale, l’enciclica – annota De Rosa ne L’Opera dei congressi – arrivò con ritardo: ben quarantatré anni dopo il Manifesto di Marx, e quando lo sviluppo delle dottrine e delle organizzazioni socialistiche, specialmente in Francia e in Germania, era ormai avanzatissimo». Il cammino intellettuale della Rerum novarum fu affidata a grandi personalità con formazione filosofica come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, uno dei temi più controversi e più tormentati nell’elaborazione dell’enciclica fu relativo alla misura del salario e al salario familiare come si evince dalle modifiche. Il primo schema era molto più avanzato della stesura definitiva, che risente delle indecisioni, dei dubbi e delle discussioni che allora dividevano su tale questione i cattolici.
Nel confronto fra il primo e secondo schema si ricava che mentre per lo Zigliara, il Papa è Vicario di Cristo, via, verità e vita, il Liberatore aveva indicato l’abolizione delle corporazioni, che non è invece esplicitamente indicata dallo Zigliara; mentre il Liberatore distingue soltanto due classi, i ricchi e i poveri, lo Zigliara ne aggiunge una terza, quella di coloro che, come emerge ancora nell’Opera dei congressi di De Rosa, «stanno in uno stadio intermedio, e vivono una vita più o meno agiata, più o meno laboriosa». L’elaborazione intellettuale della Rerum novarum affronta anche la possibilità dell’operaio di accumulare risparmio per consentirgli di poter acquistare proprietà e così che le distanze sociali tra i ricchi e i poveri si possano accorciare per costruire, attraverso le società di mutuo soccorso una nuova società.
La grande intuizione di Leone XIII consente ai cattolici militanti di procedere verso la nuova costruzione dell’impegno politico dei cristiani. Così la nascita nel primo dopoguerra del primo partito d’ispirazione cattolica, come il partito popolare, rappresentò una assoluta novità anche per molti cattolici, una novità, come scrive De Rosa, per quelle correnti clerico-moderate sempre attente per paura del socialismo ad accogliere con favore l’appoggio clericale. Sturzo non aveva l’ambizione di costruire il popolarismo come «ideologia politica di tutti i cattolici in quanto tali […] il Partito popolare sentì indubbiamente più vicina a sé l’esperienza generosa della prima democrazia cristiana, senza però disdegnare gli apporti dei moderati più sensibili ai temi del costituzionalismo moderno». Il popolarismo riuscì dove si fermò «il sociologismo attivistico dei murriani» il senso dello stato e la libertà politica.
«Il Partito popolare – scrive De Rosa ne Il Partito popolare italiano – sorse e in parte agì come partito che conservava ancora l’eredità del pensiero politico cattolico dell’ultima parte dell’Ottocento, come partito cioè di opposizione al principio e alla prassi del liberalismo statalistico, anche nella sua tendenza giolittiana, e come partito concorrenziale del socialismo; nacque come espressione di un’Italia rurale e contadina, sospettosa e arcigna verso quelle forme di politica operaistica, che colludevano con le ragioni specifiche del protezionismo industriale; nacque ancora come reazione alla cultura e alle forme politiche dell’anticlericalismo militante, antipapale e antiecclesiastico. Esso però si trovò ad operare negli anni difficili del primo dopoguerra, quando il vecchio mondo giolittiano, riformistico-borghese, con la sua fiducia ottimistica che il socialismo sarebbe rimasto né più né meno che un fenomeno economico di dilatazione e distribuzione sociale delle risorse del mondo capitalistico, fu messo in crisi dalla comparsa di un altro socialismo, che traeva la sua forza non già dalle ideologie dell’umanitarismo positivistico, ma dal trasferimento del machiavellismo sul piano mondiale della lotta di classe. La rivoluzione del 1917 stava per mutare i termini e la dimensione dei problemi di sicurezza di tutti gli Stati europei, stava per sconvolgere i criteri fonda-mentalmente interni e nazionali della lotta politica; per la prima volta metteva a nudo le radici assai deboli della nostra democrazia liberale eccitando le forze sopite e sparse dell’individualismo anarchico borghese. Croce aveva dato per morto da parecchi anni il marxismo, ma questi si presentava ora rinvigorito e armato dell’acuminata dialettica leninista. Il popolarismo di Sturzo fu come il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro: concepito come strumento per l’affermazione evolutiva delle istanze democratiche cristiane, in una prospettiva di partito politico di centro, dovette scendere in trincea, dissanguandosi, attraverso crisi e fughe di ogni specie, in una lotta disperata di resistenza fra un socialismo che non aveva più le vesti del generoso e romantico concorrente umanitario dei principi del secolo, e il rapido rifluire delle forze di tradizione moderata e conservatrice laica nel grande e livido fronte della concentrazione controrivoluzionaria, guidata da Mussolini».
Prima del discorso di Caltagirone, Sturzo aveva invitato alla riflessione anche gli amici di Murri, proponendo l’idea di una forza capace di spezzare l’egemonia della vecchia classe dirigente liberale, rafforzando un modello di partito che credesse nelle libertà e nei corpi intermedi e che potesse agire per spezzare l’egemonia giolittiana. Murri apprezzò molto il discorso di Caltagirone, ma non accolse l’invito di Sturzo alla prudenza, anche perché la Chiesa aveva colpito l’Opera dei Congressi quando sembrava che il movimento dei cattolici stesse per modernizzare il proprio pensiero. La nascita del popolarismo è legato indiscutibilmente alla figura del prete di Caltagirone e tutto l’impegno e la genialità di Sturzo fu quello di poter dare gambe alle idee dell’esperienza democratica cristiana e soprattutto dell’età leoniana.
L’intuizione di Sturzo fu quella di saper includere nel nuovo programma del popolarismo anche le altre esperienze dei cattolici «che avevano accettato il terreno della lotta politica su terreno costituzionale: dai democratici cristiani murriani che avevano alimentato le agitazioni contadine nella Romagna e in Toscana – annota ancora De Rosa – ai sindacalisti cristiani da Grandi a Miglioli, dai cattolici ex albertariani come Filippo Meda ai conservatori nazionali come Carlo Santucci. La fondazione del Partito popolare trovò un terreno fertile con la riforma voluta da Benedetto XV che assegnò compiti di diretta responsabilità ai militanti cattolici nella vita pubblica, e questo rappresentò un fatto di notevole importanza per la costruzione di una nuova militanza cattolica.
La nascita del Partito Popolare è indubbiamente un fatto di notevole importanza tanto che lo storico Federico Chabod scrisse che «[…] l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specialmente in rapporto al secolo precedente: il ritorno ufficiale, massiccio, dei cattolici nella vita politica italiana». Ma la stampa del tempo non colse l’importanza di questa nuova formazione politica e così anche Gramsci spiegò che l’operazione di Sturzo serviva come strumento provvisorio di un’organizzazione destinata a lavorare a favore del movimento socialista «non era proprio un’allegra prospettiva, però, era un passo in avanti rispetto alle banalità del vecchio socialismo anticlericale e al livore di quel moderatismo, che, meno che mai, era disposto a prendere per buona la comparsa di un Partito Popolare, che entrava nella cittadella dello Stato liberale, minacciando di mandare all’aria usi e costumi della prassi paternalistico-clientelare».