Volontà di schiacciare Mosca
Quando la guerra giusta finisce di esser giusta
Siamo già da tempo oltre la dinamica del Paese aggredito che si difende dal Paese aggressore. Nel silenzio dell’Onu, tocca alle potenze mondiali e regionali far valere il dovere imporre la pace
Editoriali - di Michele Prospero
È ancora presto per dire se “la marcia della giustizia” della Wagner porterà al crollo del regime di Putin. È già tardi invece per annusare che si addensano nubi che preparano la catastrofe. Questa lunga guerra di attrito, che marcisce tra controffensive, bombardamenti di ponti e consolidamenti territoriali effimeri, sfida un concetto chiave del diritto internazionale: quello di guerra difensiva.
Tra l’aggredito, che non intende negoziare con il “demonio”, e l’invasore, che minaccia di distruggere il centro di Kiev e dispiega armi nucleari nella vicina Bielorussia, si consuma un’infinita carneficina che alimenta quella che gli osservatori definiscono “una guerra invincibile”, nel senso che nessuno dei belligeranti può chiudere in tempi celeri i conti con il nemico. I russi hanno visto la propria superiorità imperiale sciogliersi dinanzi all’imprevista compattezza della coalizione occidentale: contro l’aggressore converge, in una solidarietà attiva attorno al paese invaso giustificata dalle norme del diritto internazionale, una molteplicità di Stati che, sospendendo la condizione giuridica di neutralità, forniscono aiuti economici, armi, addestramento militare e tecnologie sofisticate.
Tuttavia, la connotazione della contesa in corso nei termini di uno scontro valoriale tra autocrazia e società aperta fa assumere alle ostilità una valenza più generale, che trascende il diritto stretto alla legittima difesa, il quale – per realizzarsi – deve mirare al mantenimento della sovranità politica e dell’integrità territoriale dello Stato aggredito, non certo a esiti palingenetici come la “vittoria” definitiva sull’aggressore. Molteplici, infatti, sono i segnali che rivelano uno slittamento dalla circoscritta guerra difensiva alla totalizzante “guerra giusta” a sostegno dei valori non negoziabili dell’Europa.
Per cogliere la portata di un tale scivolamento dello “ius belli” sul terreno della morale, è utile rifarsi alle riflessioni del teorico canadese Brian Orend, uno dei più strenui sostenitori del contenuto etico dei conflitti armati. La guerra di difesa è volta alla conservazione dell’integrità territoriale e, al tempo stesso, sviluppa una forma di deterrenza rispetto a future azioni illecite: “Se il paese A compie un attacco armato contro il paese B (senza una previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), allora B (e qualsiasi altro Paese C, D … o Z) ha il diritto di entrare in guerra contro A come atto di difesa, di resistenza e punizione dell’aggressione” (Orend, War and Political Theory, 2019).
E però, la rivendicata superiore dignità morale conferisce agli Stati democratici una più ampia facoltà di impiego della forza rispetto a entità che, a differenza delle liberaldemocrazie occidentali, rispettano solo le condizioni minimali della statualità. L’assunto di Orend (The Morality of War, Broadview Press, 2006, p. 83) è che “solo un governo moralmente idoneo – o, come preferisco dire, minimamente giusto – ha il diritto di entrare in guerra”. La distinzione tra diritti legali (parità tra gli Stati) e diritti “morali” (derivanti dal plusvalore etico-politico delle democrazie) conduce a coperture valoriali che accrescono il potenziale distruttivo delle guerre e sterilizzano il peso della mediazione politica. Viene così inibito ogni dovere di impostare un dialogo tra potenze influenti per contenere le controversie sottraendole al dispositivo armato del singolo Stato.
Per Orend la morale deve separarsi dalla legalità internazionale: “Legalmente, qualsiasi Stato membro delle Nazioni Unite ha il diritto di entrare in guerra per resistere all’aggressione diretta. Ma, moralmente, solo quegli Stati che sono minimamente giusti hanno diritto alla sovranità, al territorio e alla resistenza all’aggressione”. Nelle relazioni internazionali la pretesa di conferire alle democrazie occidentali un sovrappiù rispetto alle autocrazie non ha risolto vari disordini regionali e, in compenso, ha accresciuto il sentimento di ostilità verso le spinte “democratizzanti” del Nord del mondo.
L’Ucraina, nel caso specifico, ha attivato una guerra difensiva contro l’invasore russo in nome della integrità dei confini e, secondo le norme del diritto internazionale, ciò rientra chiaramente nelle possibilità di un paese offeso, abilitato anche a richiedere il sostegno umanitario, finanziario e militare ad altri Stati. Ma, sebbene sul piano giuridico sia fissata la superiorità delle ragioni dell’aggredito, da parte della coalizione occidentale si cerca comunque un supplemento etico come giustificazione del prolungamento della durata del conflitto.
La agognata copertura metafisica dello scontro serve per rinviare ogni discorso politico in vista di una soluzione negoziata, che però dovrebbe sempre accompagnare la (solo provvisoria) parola delle armi. La legittima difesa, definita “diritto naturale” dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, deve comunque soddisfare requisiti assai stringenti: tra gli altri, la proporzionalità e il rispetto dei diritti umani. Inoltre esigenze fondamentali come la stabilità internazionale, il pericolo di una generalizzazione del conflitto, l’indivisibilità della sicurezza come bene collettivo, impongono di demitizzare l’autotutela, riconducendola al terreno strettamente normativo.
È evidente che, rispetto alla copertura giuridica della guerra difensiva intesa come forma legittima ed eccezionale di utilizzo delle armi volto alla protezione del territorio aggredito, l’evoluzione delle ostilità secondo una linea di escalation progressiva determina una situazione di incertezza definitoria: la legittima difesa viene scavalcata nella sua specifica valenza tecnico-giuridica quando si prospetta la continuazione della guerra in vista della debellatio del nemico magari agevolata dalla rivolta della brigata mercenaria. Proprio in un tale quadro evolutivo, la contesa deve allora uscire dai binari del diritto per ricercare una ricarica morale che autorizzi a trascendere i limiti della guerra (contingente) di difesa di un territorio invaso. Elevati sono però i rischi di mancata proporzionalità quando l’asimmetria giuridica tra aggressore e aggredito si tramuta in un’asimmetria etica che serve per generalizzare il conflitto.
Se dal piano del diritto stretto (risposta sanzionatoria e militare all’aggressore) lo scontro in Ucraina si carica di più ampie valenze morali (guerra metafisica per la libertà contro l’autocrazia), il terreno della mediazione viene minato. È degli inizi di giugno la notizia che alcuni armamenti donati dall’Occidente sono finiti nelle mani di gruppi neonazisti russi ostili a Putin operanti in Ucraina, che hanno condotto atti distruttivi spingendosi fino a Belgorod (territorio russo); “volontari” polacchi e baltici si trovano già in Ucraina e sognano il regolamento definitivo di conti con l’orso moscovita; Rasmussen prospetta ormai il coinvolgimento diretto degli eserciti della Nato sul campo. In questo modo, però, la pratica di autotutela dello Stato aggredito viene trascesa, e così la categoria della guerra difensiva si sbriciola.
Una lecita guerra di difesa dovrebbe avere un’estensione temporale limitata e quindi carattere di rimedio solo congiunturale a un’emergenza. Non può tramutarsi – se si vuole rispettare il principio di proporzionalità – in una guerra totale e infinita che dichiara come obiettivo la “vittoria”, cioè l’umiliazione del nemico ottenuta con il cambio di regime a Mosca grazie al soccorso di Prigozhin. Dinanzi alla prospettiva del successo contro il “male”, la cornice regolativa che la Carta dell’Onu prospetta salta e la ribellione dei 25mila mercenari aumenta lo spettro di una dissoluzione fuori controllo che è arduo proclamate “vittoria”.
L’ordinamento internazionale mostra delle crepe paralizzanti. Le chiavi dell’iniziativa sanzionatoria, in presenza di uno Stato riconosciuto come aggressore, devono tornare alle Nazioni Unite, che detengono il monopolio della violenza legittima orientata al bene collettivo superiore della pace. La Russia, grazie al diritto di veto di cui gode in seno al Consiglio di sicurezza, ha però il plusvalore giuridico per bloccare qualsiasi iniziativa incisiva dell’Onu. L’aporia può essere sciolta solo da una forte iniziativa politica che coinvolga almeno gli Usa e la Cina come grandi potenze mondiali indispensabili per il recupero della cornice della legalità.
Il grado di logoramento del diritto internazionale è così avanzato che nessuno degli attori in competizione per tracciare le prospettive del futuro ordine mondiale è in condizione di escludere anche momenti di cooperazione per arginare la falla che conduce all’anarchia ingestibile, e quindi alla sconfitta di tutti i protagonisti. Le potenze mondiali dovrebbero suggerire ai contendenti l’insostenibilità di un loro arroccamento nelle richieste avanzate (per gli ucraini, un mero ritorno ai confini del 1991, per i russi, il mantenimento delle terre occupate illegittimamente con la cosiddetta “operazione speciale”). Occorre perciò abbozzare le questioni relative allo jus post bellum, rispetto alle quali il diritto sprofonda però in una situazione di estrema indeterminatezza.
Nel silenzio dell’Onu, tocca alle potenze mondiali e regionali far valere il dovere giuridico di interrompere le ostilità, per imporre il valore fondativo della pace. L’ingresso di Kiev nella Nato implicherebbe uno scontro atomico con la Russia, perciò non può essere offerto come momento di mediazione. Ragionevoli condizioni per garantire il rispetto della sovranità e della sicurezza dell’Ucraina vanno fondate su basi diverse dal principio per cui ogni Stato – ma varrebbe anche per il Messico e il Canada? – ha il diritto esclusivo di scegliere le proprie strategie e alleanze internazionali.
La sicurezza non consiste solo nel potere del singolo Stato sovrano che, sulla base di un diritto di scelta assoluto, domanda di aderire alla Nato e di annichilire il dispotismo orientale, ma rappresenta anche un problema comune, che, per Stati nevralgici, può richiedere una zona di cuscinetto neutrale. I garanti terzi, in un’ottica di limitazione del danno, dovrebbero immediatamente concordare i modi per congelare il conflitto ucraino attraverso un cessate il fuoco. La decisione sulle sorti del Donbass e della Crimea andrebbe rinviata ad un momento successivo, dato che un definitivo assetto degli spazi contesi è arduo nell’immediato.
Se, in nome della battaglia per la società aperta, gli Stati più influenti rinunciano a creare momenti di contatto, tentativi di dialogo, sottovalutano che così l’insicurezza internazionale cresce a dismisura, e niente è più ingovernabile di uno scacchiere destabilizzato, con le simbologie premoderne delle milizie mercenarie che avanzano contro Mosca sotto l’incalzare post-moderno della minaccia atomica.