L'incontro a Pesaro
La leggenda di Giuseppe Tornatore: la monografia dedicata al regista
La monografia dedicata da Marsilio al cineasta di “Nuovo cinema paradiso” è l’occasione per ripercorrere un’intera carriera. “Sono prigioniero della sindrome dell’opera prima, la paura è la migliore compagna di viaggio”
Cinema - di Chiara Nicoletti
Nel libro monografia che gli hanno dedicato, il direttore della Mostra del Cinema di Pesaro Pedro Armocida e il premio Campiello Emiliano Morreale è stato definito uno degli ultimi registi italiani che intende il cinema bigger than life: Giuseppe Tornatore, premio Oscar e maestro indiscusso, a Pesaro si è concesso in ben tre incontri e tanti ricordi sulle sue opere, la sua Sicilia e la sua visione.
Un artigiano che il primo incontro con le immagini in movimento lo ha fatto non solo da spettatore, come tutti noi, ma da proiezionista di pellicole proprio come il personaggio di Philippe Noiret in Nuovo Cinema Paradiso, il suo film più conosciuto e amato. E risale proprio a questa sua opera ed alle sue due anime, quelle di artigiano e di regista, il ricordo più nostalgico: “Quando ho girato la sequenza in cui il proiezionista Alfredo, per accontentare gli spettatori che sono rimasti fuori dal cinema, sposta il vetro protettivo che c’è davanti l’obiettivo e proietta il film in piazza sui muri, tutti pensavano che sarebbe stata costosa. All’ultimo momento ho dovuto anticiparla nel programma e siccome non era stata preparata, l’ho fatto io. All’epoca il digitale non c’era e fu l’esperienza di aver fatto quel mestiere da ragazzo per molti anni a darmi la capacità di metterla in pratica. Il produttore mi disse ‘ma come facciamo a farla?’ ed io risposi: ‘ci penso io!’. Andai a prendere un vecchio proiettore che avevo a casa mia, un altro lo feci venire da Palermo e li riposizionai in posizioni strategiche. Fu esaltante perché tutti mi guardavano come a dire ‘ma questo come fa?’, ma era perché io quella materia la conoscevo bene. Faccio questo esempio perché quando devi raccontare una cosa devi conoscerla bene e di conseguenza ti vengono anche le idee risolutive”.
Quarant’ anni di carriera, quella di Tornatore che ha fatto della paura dell’opera prima unica senza seguito, una cifra stilistica, una sfida a mettersi sempre alla prova e in discussione: «Il bello del rapporto tra chi fa i film e chi li vede è che talvolta mi sottoponete delle riflessioni che sono armoniche con le premesse che mi portano a fare i film ma alle quali non avevo pensato», sottolinea. «Trovate elementi di coerenza tra i miei film che ho sempre vissuto come l’uno il tradimento dell’altro. Vivo nel complesso dell’opera prima, sono convinto che il timore, la paura nell’affrontare il primo film sia il compagno di viaggio migliore mentre la sicurezza non è una buona amica. Mi sono illuso di aver zigzagato, che il regista di Nuovo Cinema Paradiso fosse diverso da quello di Una pura formalità e così via, di andare da una parte e dall’altra perché mi piaceva, così come mi piaceva che al cinema si proiettassero le cose più disparate: un giorno un film di Totò, il giorno dopo Bergman e poi John Huston, un musicarello, un film drammatico, uno comico. Per me il cinema implicava il concetto di cambiamento ma nel mio, evidentemente, ci sono delle linee interne, nei miei racconti ci sono fili sottili che unificano tutto».
Un incontro e una monografia dunque, Giuseppe Tornatore – Il cinema e i film, edito da Marsilio che hanno portato il regista siciliano a “capire se stesso e il suo percorso”: «Con questo libro – dice Peppuccio – non vedo l’ora di capire da che parte mi sono mosso, quando ho fatto bene e quando ho fatto male». Era il 1986 quando un giovane Tornatore portava nelle sale la sua opera prima, Il Camorrista con Ben Gazzara, film liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Joe Marrazzo, basato sulla figura del boss Raffaele Cutolo. Da gran cinefilo quale è sempre stato e con la risaputa passione per il cinema dell’amico regista Francesco Rosi, potrebbe essere stato influenzato in questo lavoro dalla visione della pellicola Salvatore Giuliano: «Non mi sento di escluderlo», conferma Tornatore. «Mi colpì il tono realistico del film – spiega il cineasta – e capii che con il cinema si potevano fare molte cose. Avevo deciso che il mio primo film non sarebbe dovuto essere personale ma oggettivo e quando mi sono imbattuto in questo giornalista, Joe Marrazzo e il suo libro, mi sembrò che raccontare la nascita di un’organizzazione dall’interno mi avrebbe consentito di raccontare anche le miserie e non solo l’infallibilità poiché, fino a quel momento, i film trattavano la mafia come un’entità misteriosa e per certi versi, appunto, infallibile. Per Il camorrista scelsi la strada del romanzone, del racconto popolare e non quella dell’inchiesta come Rosi».
Che Gomorra, sia il film che la serie, a loro volta abbiano attinto dal primo lavoro di Tornatore? «Ho visto solo il film di Garrone che ha un modo di raccontare più aggressivo anche se con approccio al racconto popolare. C’è chi mi dice che Il camorrista ha anticipato le cose. Non lo so, ma sicuramente ha anticipato alcune formule. Per questo film ho girato anche la serie, poi non andata mai in onda per disavventure giudiziarie. L’hanno ora tirata fuori, ho lavorato alla color correction e il suono e credo che finalmente la potranno utilizzare e inserire, non so, in qualche piattaforma».
Mentre accarezza l’ipotesi di una versione seriale di Nuovo Cinema Paradiso e lavora a due progetti che ci tiene segreti, giunge notizia di una serie, quella su Il gattopardo, con Kim Rossi Stuart, in lavorazione. La commenta Tornatore che ha all’attivo un documentario sul suo produttore, L’ultimo gattopardo – Ritratto di Goffredo Lombardo: «È un progetto azzardato ma mi auguro che così, chi non conosce il film, possa scoprirlo. Da amante di Visconti non avrei sentito il bisogno di vederlo raccontato in una serie ma immagino che ci sia un pubblico più portato ad accedere a quel racconto in una formula nuova».
Dodici lungometraggi, dieci documentari e poi corti, spot, la filmografia di Tornatore è costellata di grandi successi, ultimo in ordine cronologico e tra i più commoventi, il suo Ennio, ritratto cinefilo ed intimo del Maestro Ennio Morricone. Come un genitore che ama nella stessa misura tutti i suoi figli, il regista dell’ultimo kolossal del nostro cinema, Baarìa, si rifiuta di dichiarare il suo preferito: «I miei film mi hanno sempre regalato le stesse emozioni. Nuovo Cinema Paradiso fu incredibile perché riuscì a raccontare questo mondo di cui sono tuttora innamorato. La cabina di proiezione me la porto addosso. Baaria un’emozione indicibile, ricostruire il mio paese come era 70 anni prima e quando ero bambino è stato un grande privilegio».
Quale il titolo invece più amato dai giovani? «A parte Nuovo Cinema Paradiso di cui mi parlano tutti, è molto amato La leggenda del pianista sull’oceano, i ragazzi si riconoscono nel sentimento di questo bambino che nasce in questo mondo che non esiste e che decide di concludere la propria esistenza con la conclusione di questo stesso mondo». Con la recente scomparsa di Silvio Berlusconi non si può fare a meno di far notare quel ‘Silvio Berlusconi Communication’ nei titoli di testa di Il camorrista o molti altri titoli fatti con Medusa: «C’è il suo nome sì ma non mi viene in mente di citarlo come produttore perché non ho avuto rapporti con lui ma solo con Lombardo e poi a Medusa con Mario Spedaletti e Giampaolo Letta. I film che ho fatto, li ho fatti sempre con grande libertà e nessun condizionamento ideologico. C’è chi disse che si parlava poco di mafia perché il film era fatto da Medusa ma non era affatto vero».