L’Unità del 28 luglio 1971
Il diritto al picchettaggio: lotte operaie e polizia
Lo sciopero non può essere ridotto alla semplice possibilità di astenersi dal lavoro
Archivio Unità - di Paolo Persichetti
Il ciclo di lotte operaie iniziato nel 1969 non investì solo i distretti industriali del Nord, città fabbriche come Torino, Milano o Genova, ma ebbe un respiro nazionale investendo anche città come Roma cresciuta a dismisura nelle sue sterminate periferie sotto la spinta della migrazione interna.
Le tradizionali lotte dei lavoratori edili, che avevano segnato la sua vita politica e sociale negli anni del dopoguerra, cominciavano ad essere accompagnate dai movimenti di lotta per la casa, da crescenti occupazioni di immobili di proprietà dei grandi imprenditori edili che avevano messo al sacco l’agro romano e dai ceti operai delle aziende della zona sud-est della città. Nei giorni del natale 1971 un violento assalto della polizia aveva tentato di impedire l’apertura di un enorme tendone in piazza di Spagna, nel centro ricco della città, per chiedere solidarietà e aiuto economico alle famiglie dei lavoratori in lotta di aziende come la Coca Cola, le Camicerie Cagli, le Cartiere Tiburtine, la Pantanella, l’Aereostatica, il Lanificio Luciani, oltre alla Fatme, Voxson e Autovox.
Una realtà che l’urbanista Italo Insolera descriveva in questo modo nel suo Roma moderna: «Le tute degli operai sono comparse in città in lunghi e frequenti cortei che hanno portato nel paesaggio impiegatizio le parole “scioperò”, “occupazione”. Nomi di prodotti industriali – Fatme, Autovox – sono diventati nomi di problemi che la città ignorava. […] Nel 1968 nei vari baraccamenti e borghetti risultavano abitare 62.351 persone in 16.506 nuclei familiari. Dall’estate del ’69 i baraccati hanno occupato metodicamente palazzi in demolizione in vari quartieri della città e nuovi edifici ancora disabitati nella periferia, dando contemporaneamente fuoco alle baracche per sottolineare la volontà di rottura con il passato. Poi sono stati sloggiati dalla polizia – in genere all’alba, quando non solo dormono i baraccati, ma anche i cittadini “per bene”, i fotografi, i giornalisti, e i camion targati Ps, con sopra le povere masserizie, non rischiano di intralciare il traffico – e altre baracche sono sorte».
I presìdi davanti ai posti di lavoro per svolgere assemblee, rafforzare gli scioperi o mantenere alto lo stato di agitazione sono parte del repertorio d’azione storico della working class. Strumenti antichi di lotta operaia, democrazia in azione o forme di «contropotere» che hanno incontrato sempre la dura repressione delle forze di polizia schierata in difesa degli interessi padronali. Sul finire degli anni Sessanta i settori più progressivi di una magistratura sociologicamente rinnovata dai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di ceti sociali un tempo esclusi e per questo più sensibili alle idee di rinnovamento, rivolsero un’attenzione diversa ai conflitti del lavoro. Una giurisprudenza innovativa interpretò questi fermenti ancorandoli ad alcuni dettami costituzionali rimasti inattivi. Il divario tra costituzione materiale e costituzione formale tendeva così a restringersi, anzi in molte parti del Paese la prima sopravanzava di gran lunga la seconda.
Il clima mutò bruscamente alla fine degli anni 70 quando sotto la pressione dell’emergenza antiterrorismo gli strumenti della democrazia operaia persero legittimità e all’idea di sindacato conflittuale si sostituì il sindacato concertativo. La profonda ristrutturazione produttiva modificò i rapporti sociali e politici a cui seguì una giurisprudenza restaurativa ispirata al nuovo paradigma economico ultraliberale. La conseguenza fu una violenta criminalizzazione degli strumenti di lotta operaia. La vicenda dei 61 operai Fiat licenziati per ragioni politiche nell’ottobre 1979, 40 della Mirafiori, 13 di Rivalta e 8 della Lancia di Chivasso, accusati di «violenze fisiche e minacce», fece da battistrada.
Una situazione analoga si ripresenta oggi nel comparto della logistica, uno dei settori strategici del capitalismo attuale dove vigono forme di lavoro neoschiavile: sfruttamento intensivo della forza lavoro, in prevalenza straniera, unitamente a condizioni contrattuali precarie, un uso sistematico degli straordinari con orari che toccano le 12-13 ore senza periodi di riposo, la presenza di intimidazioni, minacce, abusi verso i lavoratori, violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene. Una giungla dove l’organizzazione del lavoro è costituita da pseudocooperative sottoposte al dominio degli algoritmi dei grandi hub dell’ecommerce, appalti e subappalti, forme di caporalato, interinali, mancanza di diritti sindacali, bassi salari. Per tentare di porre freno a questa situazione di oppressione e sfruttamento alcune sigle del sindacalismo di base hanno organizzato i lavoratori innescando cicli di lotte molto conflittuali per migliorare le loro condizioni di vita e tutelare i loro diritti politici e sindacali.
Una fortissima repressione antisindacale si è abbattuta su di loro. Nel 2013, Adil Belakhdim, un delegato sindacale del SiCobas, è stato travolto da un camion nel corso di un presidio davanti ai cancelli del centro di distribuzione della Lidl a Biandrate, in provincia di Novara. Nel luglio del 2021, la procura di Piacenza ha fatto arrestare sei sindacalisti dell’Usb e del SiCobas: tra i capi di imputazione c’erano «le attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti». Secondo la procura le forme di lotta sindacale impiegate nel corso delle vertenze altro non erano che strumenti di «coercizione e ricatto», le rivendicazioni una mera «attività estorsiva» e l’organizzazione sindacale una «associazione per delinquere».
L’iniziativa anche se poi ridimensionata dal tribunale segnala la forte regressione della giurisprudenza sul lavoro sul tema degli scioperi, ormai nella stragrande maggioranza dei casi i picchetti vengono considerati forme di violenza privata. Addirittura in una recente sentenza un giudice ha ritenuto che anche nel settore privato lo sciopero debba essere preannunciato a questura e controparte.
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Questo articolo di Fausto Tarsitano è apparso sull’Unità del 28 luglio 1971
Contro le lotte ingaggiate dai lavoratori romani per la difesa del posto di lavoro e la conquista di più umane condizioni di vita vi è stato in queste ultime settimane un massiccio e brutale intervento di ingenti forze di polizia e di carabinieri. L’ondata di violenze s’è dapprima abbattuta contro i picchetti costituiti dagli operai davanti agli ingressi della filiale della Fiat di Viale Manzoni, ha poi investito i picchetti delle commesse dei grandi magazzini davanti alle sedi di Standa e di Upim e non ha risparmiato quelli degli alberghieri.
L’aggressione ed il pestaggio sono stati ripetuti contro una pacifica manifestazione degli operai della Pantanella che si stava svolgendo davanti al Parlamento ed in altre città italiane. Tutti questi episodi ed altri consimili stanno ad indicare che è in atto nel paese un grave attacco al diritto di riunione e di sciopero che si manifesta anche attraverso la aggressione poliziesca ai picchetti operai, come se essi non fossero consentiti e protetti dal nostro ordinamento giuridico. La migliore giurisprudenza ha già da tempo riconosciuto che il diritto di sciopero non può essere ridotto alla semplice possibilità di astenersi dal lavoro. Quel diritto, perché non rimanga svuotato del tutto nella sua essenza di arma sindacale, deve accompagnarli alla facoltà di coordinare una somma di comportamenti omogenei per fare acquisire allo sciopero stesso quella efficacia e quella capacità di pressione che ne costituiscono l’ineliminabile presupposto.
I lavoratori devono dunque poter organizzare l’astensione e constatare che essa verrà attuata da tutti i compagni o almeno da una parte apprezzabile di essi anche perché la singola defezione può essere interpretata come un indebito rifiuto dell’attività lavorativa suscettibile di gravi ritorsioni. L’insegnamento che viene dalla stessa magistratura, quando essa giudica in aderenza ai principi costituzionali, ha perciò spesso sottolineato che le decisioni operaie, i modi per attuarle non possono essere stabiliti se non nel luogo di naturale convegno delle maestranze, cioè nelle sedi sindacali o davanti i cancelli delle fabbriche, dove è consentito dalla legge di scoraggiare l’ingresso di eventuali crumiri.
Nessun funzionario di polizia può sostenere che siffatti indirizzi giurisprudenziali siano rimasti isolati: il pretore di Pinerolo infatti ha affermato «che è lecito in occasione di uno sciopero, formando una barriera umana, fermare un pullman sul quale si trovano impiegati ed operai che si recano al lavoro, al fine di consentire loro di rendersi conto della riuscita dello sciopero e di decidere insieme agli altri lavoratori rima di entrare nello stabilimento, se aderire o meno allo sciopero. Pertanto, non è legalmente dato l’ordine di desistere dal formare tale barriera».
La Corte di assise di Foggia ha precisato che «il persuadere gli altri lavoratori ad astenersi dal lavoro costituisce il mezzo migliore per l’esercizio del diritto di sciopero e pertanto non solo non costituisce reato ma è un diritto garantito dalla Costituzione». E di recente il Tribunale di Catanzaro ha avvertito che «il picchettaggio non può non rientrare nello esercizio del diritto di sciopero. rappresentandosi come uno dei tanti mezzi con cui si realizza e sì articola l’astensione collettiva dal lavoro e risolvendosi in una azione di persuasione svolta da scioperanti e sindacalisti davanti agli ingressi della sede di lavoro ed intesa appunto ad ottenere che tutti i lavoratori partecipino alla fase più critica della dinamica della normativa sindacale».
Un potere dello Stato, la magistratura, in attuazione dei principi costituzionali, considera quindi il picchettaggio un diritto dei lavoratori. La polizia invece impiega i suoi reparti per disperdere i picchetti, procede al fermo o all’arresto degli attivisti sindacali che li hanno promossi e li persegue penalmente. A nulla serve che lo stesso presidente della Corte Costituzionale proclami la legittimità di quelle forme di lotta e intervenga per affermarne la necessità. «Al fondo e nelle arterie della Costituzione — scrive Giuseppe Branca — vi è una grande sete di giustizia sociale. Ora, la giustizia sociale non si può attuare tutta in una volta. Una parte è attuata dalla stessa Costituzione, una parte è affidata al legislatore ordinario, parte infine devono realizzarla gli stessi lavoratori».
E’ facile dimostrare che i dirigenti delle forze di polizia in tutti questi anni hanno assunto nei confronti delle lotte operaie e contadine un atteggiamento del tutto opposto. Le giuste rivendicazioni dei lavoratori e le agitazioni che ne sono derivate sono state infatti considerate momenti di gran turbamento dell’ordine pubblico, della pace sociale, dell’ordine economico. Avola rimane l’esempio più recente di una pratica repressiva sciagurata. Ma oggi, anche per merito dell’azione del nostro Partito sempre più larga, va facendosi tra le forze politiche e sindacali l’esigenza di un vasto dibattito nel Parlamento e nel Paese su questioni così scottanti.
Una polizia non assoggettata agli indirizzi repressivi e antipopolari, rispettosa delle norme costituzionali, che persegua i grandi ideali e gli obiettivi di fondo che la legge fondamentale propone di raggiungere all’intera collettività è quanto chiediamo noi comunisti. Chi invece come l’on. Restivo si adopera solo per rafforzarne la capacità di aggressione ai diritti dei lavoratori e per tutelare direttamente o indirettamente il privilegio economico, non soltanto continua a separarla dal resto della nazione ma fallisce lo scopo della repressione del crimine cui la polizia si dice destinata.