X

Intervista a Emma Fattorini: “Da Silvestrini a Zuppi: la diplomazia vaticana è ancora in campo”

Intervista a Emma Fattorini: “Da Silvestrini a Zuppi: la diplomazia vaticana è ancora in campo”

Emma Fattorini è professoressa ordinaria di Storia contemporanea all’Università “La Sapienza” di Roma. Tra rivisitazione storica, in un incalzante viaggio lungo un secolo, con testimonianze e documentazioni inedite, è ora nelle librerie Achille Silvestrini. La diplomazia della speranza (Morcellana, 2023). Una speranza che oggi s’invera in un altro cardinale “itinerante”, Matteo Maria Zuppi che prova a costruire un ponte di dialogo tra la Russia (ieri si è conclusa la sua missione a Mosca) e l’Ucraina. Da Silvestrini a Zuppi: la diplomazia vaticana è ancora in campo. E il bel libro di Emma Fattorini ne ricostruisce sapientemente le trame.

Nella veste di diplomatico della Santa Sede e di prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il cardinale Achille Silvestrini ha attraversato, da protagonista, un arco temporale che va da Pio XII a Papa Francesco. Professoressa Fattorini, perché quella di Silvestrini è stata la “diplomazia della speranza”?
La ‘Speranza’ è, delle tre virtù teologali, la più negletta, rispetto alle altre due che sono la Fede e la Carità. Confusa e percepita spesso come una generica attitudine all’ottimismo, la Speranza è, in realtà, una vera e propria virtù importante, e anche molto difficile da praticare. Applicata alla diplomazia è il filo di tutta la attività diplomatica del cardinal Silvestrini ed è il senso, l’anima stessa, della strategia dell’Ostpolitik vaticana . Per schematizzare molto potremmo dire che la diplomazia della speranza è una politica del dialogo, dialogo non solo applicato su un aspetto piuttosto che un altro ma come una postura, uno sguardo, che tende a “valorizzare ciò che unisce rispetto a ciò che divide”, come disse Giovani XXIII. Una visione fiduciosa e insieme molto realista, della natura umana: il cuore stesso del Concilio Vaticano II. Diplomazia della speranza infatti non significa astratto buonismo idealistico, anzi rimanda ad un forte realismo. Se A Giovanni XXIII vanno il merito e il coraggio delle grandi intuizioni, Paolo VI ne fu il realistico esecutore. Come ripeteva Silvestrini, con tenacia e convinzione Papa Montini – che sostenne sulle sue spalle tutto ciò che il Concilio rappresentava – si impegnò in una politica di dialogo realista attraverso la diplomazia vaticana saldamente tenuta in mano da Agostino Casaroli e dal suo braccio destro Silvestrini. Montini s’impegnò dunque per un “dialogo sulle cose”, che fosse «attivo, instancabile, paziente, franco, eppure fermo nell’affermazione dei principi e del giusto diritto. La parola chiave era normalizzazione, intesa dallo Stato marxista nel senso di un suo riconoscimento e dalla Santa Sede, invece, quale ristabilimento delle condizioni di sopravvivenza delle singole Chiese nonché della vita religiosa in generale. C’era poi la questione di non scavalcare la realtà e il vissuto delle realtà ecclesiali locali, peraltro diverse le une dalle altre, con cui fare accordi separati come gli Stati socialisti avrebbero d’altra parte preferito. Al riguardo capisaldi inderogabili per la Santa Sede erano il riconoscimento tanto dell’autorità del Pontefice sui fedeli cattolici quanto dell’episcopato all’interno delle diocesi e la libertà delle comunicazioni con Roma. Primi risultati in tal senso si ebbero con la Jugoslavia, che aveva rotto i rapporti con l’Unione Sovietica nel 1948: iniziati nel giugno 1964, i negoziati con la Repubblica titina si sarebbero conclusi nel giugno 1966.

”Nei suoi racconti – cito un passo della introduzione – si ritrovano germi di consapevolezza sulla difficile transizione seguita al crollo del comunismo, sulle ricadute in tema di diritti umani, sulla delicata situazione dei confini delle Repubbliche post-sovietiche, macigni che tanto avrebbero pesato fino all’ultima guerra tra Russia e Ucraina”. Quella “diplomazia della speranza” è un lascito che può segnare positivamente il futuro o è la testimonianza straordinaria di un tempo che fu?
Il frutto più maturo di tutta la strategia dell’Ostpolitik fu la Conferenza di Helsinki del 1975, voluta, inizialmente, dall’Unione Sovietica per confermare i confini usciti dalla seconda guerra mondiale, proposta accolta con diffidenza dal mondo occidentale. La Santa Sede incoraggiò, invece, la proposta e accettò di partecipare alla Conferenza, dove insistette per ottenere il riconoscimento dei diritti umani, in primis della libertà religiosa allargata anche a quello della libertà di coscienza. I regimi comunisti votarono a favore, pensando, ingenuamente che fosse un mero e innocuo contentino. Ed invece fu un fatto enorme. Contribuì all’erosione interna di quei regimi, per la richiesta di libertà e dei diritti, princìpi che saranno alla base dei movimenti di dissenso interno a quei regimi. Con la caduta del comunismo, Silvestrini non si era mai illuso sulla bontà di un capovolgimento meccanico, quanto piuttosto sollecitò una giusta transizione di quei paesi. Diffidava del risorgere dei nazionalismi anche quando questi prendevano sembianze religiose. Le chiese orientali, dopo il crollo del comunismo, furono pervase da un effervescente risveglio religioso ricco di speranze; allo stesso tempo si riattivarono le contraddizioni e le tensioni che covavano al loro interno. Silvestrini, come Prefetto della Congregazione delle chiese orientali, sulla scia dello stesso Paolo VI era cosciente dei rischi per il percorso ecumenico, e perché si sarebbero inaspriti i rapporti del Vaticano con Mosca, infine perché favorire tendenze nazionaliste, e per di più su base religiosa, non avrebbe certamente aiutato il dialogo e la pacificazione in quei territori

Qual è la lezione più pregnante e attuale del pensiero, oltreché dell’agire diplomatico, di Achille Silvestrini?
Silvestrini si staglia come un vero e proprio modello della chiesa novecentesca: per lealtà ai vari pontefici e spirito di servizio alla chiesa, così diverso dalle opacità che oggi attraversano anche ambienti vaticani. Un modello anche di abilità diplomatica, di laicità nel rapporto con la politica nazionale e di capacità educativa verso i giovani della sua amata Villa Nazareth, luogo di formazione ereditata dal cardinal Domenico Tardini. Uomo delle istituzioni con ruoli quasi sempre apicali è rimasto sempre un uomo libero. Il lascito più importante è proprio questa libertà e questa attitudine al dialogo, all’ascolto e all’incontro: un vero e proprio talento per le relazioni, che diceva di avere appreso nella sua Romagna dove “ si giocava a carte con i repubblicani e i comunisti… e dove ho imparato che chiunque mi cercava mi avrebbe potuto trovare, anche quando divenni cardinale”. Quel ‘cardinalone’ che è sempre pronto ad ascoltarti e a discutere con il suo sorriso aperto”, come lo ricordava Federico Fellini che gli fu grande amico. E’ chiaro come questo talento per le amicizie sia stato un buon viatico per la diplomazia delle relazioni con il mondo laico e anche per scalfire la diffidenza dei mondi comunisti.

Dei papi che hanno accompagnato la sua vita, qual è quello che più ha marcato la scena internazionale?
Chiedere a Silvestrini quale fosse ‘il suo papa preferito’ era modalità che con lui non funzionava. La fedeltà di don Achille, matura e leale non era mai faziosa e cortigiana; fatta di rigore e riservatezza, scevra da protagonismo. È vero però che considerava Montini un papa “speciale”, il suo papa, perché in lui vedeva l’artefice della riconciliazione della chiesa con la modernità e l’inveramento della “politica cattolica novecentesca” di democrazia matura.

Come si poneva allora Paolo VI circa i rapporti coi Paesi dell’Est? La sua fu incertezza, ambivalenza o salutare prudenza?
Silvestrini ne interpretava così la complessa posizione: Nell’Ecclesiam suam dell’agosto 1964 Paolo VI coglieva le difficoltà profonde di questo percorso: la mancanza di linguaggio e di mentalità, che neanche lontanamente potevano comprendere un ragionamento democratico, ma, soprattutto – cosa che in seguito, nelle varie polemiche sull’Ostpolitik, si finì col dimenticare –, il fatto che le chiese non potevano parlare e, il più delle volte, neppure sopravvivere. Per poi tornare però all’intuizione della Pacem in terris, in cui Papa Giovanni aveva sostenuto che «le dottrine, una volta elaborate e definite restano le stesse, mentre i movimenti non possono non evolversi e non andare soggetti a mutamenti anche profondi». E per questo andava distinto l’errore dall’errante. Col suo inedito ecumenismo della carità e coi suoi viaggi all’estero Paolo VI incarnò l’immagine della Chiesa in uscita verso il mondo. Ma nei riguardi di un Est così chiuso in sé stesso pensò sempre che spettasse a Roma fare il primo passo. Certo i primi pur timidi passi, ma clamorosi nel loro significato simbolico, erano stati compiuti da Giovanni XXII. Piccoli episodi, ma a loro modo “epocali”, quali gli auguri di Nikita Chruščëv per gli ottant’anni di Giovanni XXIII, l’enfatizzato appello del Papa per il superamento della crisi di Cuba, che di fatto tolse le castagne dal fuoco a entrambi i leader dei due blocchi, l’inaspettata liberazione del metropolita ucraino Josyp Slipyj dal gulag di Dubravlag. Fino a quello più spettacolare del 7 marzo 1963, quando Roncalli ricevette in udienza Rada Chruščëv, figlia del segretario del Pcus, e il di lei marito, nonché direttore del quotidiano Izvestija, Aleksej Adjubei.

L’Unità ha pubblicato la “Populorum progressio”. Un testo non solo di straordinaria attualità ma verrebbe da dire “rivoluzionario”. Professoressa Fattorini, a salvarci da una politica asfittica e senza visione ci pensano i cattolici?
La politica è messa talmente male oggi che forse solo un miracolo la potrebbe salvare (dice sorridendo Fattorini ndr) e anche i cattolici impegnati in politica sono molto disorientati. Ma questo è proprio il momento di impegnarci ancora di più. Di restare vigili e combattenti. Ed è anche per questo che serve non dimenticare e conoscere veri modelli e autentici esempi, come quello di Achille Silvestrini.