La premier in crisi
Pnrr, migranti e Bce: tutti i flop della Meloni
Dal Piano di aiuti europeo all'affaire Tunisia: porte chiuse per la premier
Politica - di David Romoli
In Italia Giorgia Meloni può dormire tra due guanciali. Non ha nulla da temere, lo sa e per questo nel mercoledì rovente del Parlamento si è permessa di andare a ruota libera. L’opposizione, sia divisa che unita, non la impensierisce. Le divisioni interne alla maggioranza ci sono ma non tali da destare vera preoccupazione: sul Mes, eterno pomo della discordia, la Lega fa il suo gioco ma chiarendo che la decisione finale spetta alla premier e se deciderà di ratificare la riforma non sarà una tragedia.
Forza Italia, indicata fino a poche settimane fa come l’ala pro Mes della maggioranza, si è allineata senza esitare. A siglare la retromarcia è Gasparri, ma Tajani lo aveva già fatto capire in più occasioni: “Le circostanze sono cambiate, bisogna rivedere le regole senza procedere a ratifiche al buio”. Restano incidenti di percorso come il caso Santanchè ma sono sassolini, non massi. Fuori dai confini della Nazione le cose stanno diversamente, anzi stanno all’opposto. Lì le difficoltà si accumulano ogni giorno di più e certo non è un caso che la premier, nelle comunicazioni di mercoledì, abbia rispolverato per la prima volta dall’insediamento a Chigi toni bellicosi. I fronti nevralgici sono due, entrambi sul tavolo del Consiglio europeo in corso a Bruxelles: immigrazione ed economia. Sul primo capitolo la situazione è quella tipica del bicchiere pieno a metà.
La crociata del governo italiano per fare della difesa dei “confini esterni”, i cosiddetti “movimenti primari”, una responsabilità europea ha avuto successo sulla carta, dal momento che da Macron alla presidente dell’europarlamento Metsola nessuno contesta l’enunciato e anzi tutti lo confermano a chiare lettere. Nella pratica però tanto appassionate dichiarazioni non hanno prodotto nulla di concreto. Il solo risultato raggiunto dalla premier è la possibilità di rimpatriare i clandestini non solo nei Paesi d’origine ma anche in quelli di transito, purché considerati “sicuri” e ci vuole coraggio per descrivere come Paesi sicuri posti come la Libia, dove stupri omicidi e deportazioni nei lager sono la norma. Ma quello è un tipo di coraggio che all’Europa non è mai mancato e l’accordo raggiunto l’8 giugno dal vertice dei ministri degli Interni, se non verrà modificato, prevede che a decidere quali Paesi possano definirsi “sicuri” siano gli Stati che deportano i clandestini.
La partita più importante per Meloni è però quella, ancora tutta in sospeso, della crisi in Tunisia. Il paragrafo, nell’agenda del Consiglio, è stato iscritto nel capitolo Relazioni estere e non in quello Immigrazione. Per Meloni è un punto a favore: avvalora la sua strategia del “partenariato con l’Africa” per inaridire i flussi migratori alla fonte, quel che lei definisce “il diritto di non emigrare”. La Germania, in compenso, ha bloccato insieme ad altri Paesi il protocollo d’intesa raggiunto dalla stessa Meloni, dal premier olandese Rutte e dalla presidente della Commissione europea von der Leyen con il presidente tunisino Saied. Avrebbe dovuto essere formalizzato il 28 giugno, prevede l’esborso immediato di 150 milioni di euro che dovrebbero arrivare a 900 milioni una volta raggiunto l’accordo con il Fmi, cioè con Washington. L’ufficializzazione dell’accordo è stata rinviata al 3 luglio perché alcuni Paesi, primo fra tutti la la Germania, chiedono garanzie sul rispetto dei diritti umani dei migranti ma soprattutto sulla disponibilità della Tunisia ad accogliere le richieste di rigore e austerità draconiane dello stesso Fmi.
Se l’intoppo dovesse rivelarsi insuperabile per Giorgia Meloni sarebbe un problema enorme. I 150 milioni della prima tranche europea in sé sono poca cosa, ma rappresentano la leva sulla quale conta la presidente italiana per convincere Biden, nel viaggio a Washington previsto per metà luglio, a sbloccare il prestito di 1,9 miliardi del Fmi al quale si aggiungerebbero subito i 2 miliardi in sospeso dei Paesi arabi e il completamento della quota europea. Per Meloni sarebbe una vittoria nel merito, la Tunisia essendo una bomba a orologeria: il default spingerebbe centinaia di migliaia di persone verso le coste italiane. Ma sarebbe anche e soprattutto un successo pieno e prezioso d’immagine, che farebbe della presidente italiana una protagonista centrale della politica europea. La missione americana è comunque difficile ma se dovesse arenarsi quel primo passo deciso a Tunisi diventerebbe impossibile.
Sul fronte dell’economia, anzi sui diversi fronti dell’economia, la situazione è anche più tempestosa e il Mes, eterna fissazione dei politici e dei media italiani, è quasi il problema minore. Ieri la Corte dei Conti tedesca ha bocciato la proposta di riforma del patto di stabilità presentata dalla Commissione. Per l’Italia quella proposta è già troppo rigida e penalizzante: la Germania la considera molle e permissiva, chiede più rigore. Pessimo viatico per la trattativa sul nuovo Patto. Il bollettino della Bce conferma che il direttivo, come anticipato dalla presidente Lagarde, è più che mai deciso a rialzare i tassi e a mantenere poi la stretta fino a portare stabilmente l’inflazione al 2%. Significa che il rischio di recessione, per l’Italia, è quasi una certezza.
Le notizie più allarmanti arrivano però dal versante Pnrr. La terza rata, 19 miliardi, non è ancora arrivata, è ferma dal 28 febbraio. La quarta dovrebbe scadere oggi se gli obiettivi in elenco entro il 30 giugno fossero stati raggiunti e non è così. Tra una cosa e l’altra, quei fondi arriveranno comunque in forte ritardo, costringendo l’Italia a fare i salti mortali per anticiparli nella legge di bilancio o tagliando a destra e a manca o ricorrendo al debito. Ma la vera minaccia sta nel fatto che la somma di ritardi non autorizza molto ottimismo nella disponbilità di Bruxelles a sottoscrivere quella “revisione radicale” del Piano, di fatto una riscrittura piena, che chiede l’Italia. La trattativa deve concludersi entro il 31 agosto. Se le cose dovessero andare male sarebbe un guaio talmente gigantesco da far apparire risibili, al confronto, tutti gli altri.