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Alex Langer, il fondatore dei Verdi e la lezione sulle armi ai più deboli

Alex Langer, il fondatore dei Verdi e la lezione sulle armi ai più deboli

Sono ormai trascorsi oltre sedici mesi (era il 24 febbraio 2022) dalla aggressione criminale della Russia di Putin contro l’indipendenza e l’integrità dell’Ucraina, Stato libero e indipendente dal 1991, presentata spudoratamente al mondo intero come una “operazione militare speciale” addirittura di “denazificazione”.

All’opposto, molti osservatori hanno identificato l’operato di Putin con il 1939 di Hitler, l’aggressione alla Cecoslovacchia e poi alla Polonia, che diede inizio alla seconda guerra mondiale, anche a causa della iniziale inerzia (chi non ricorda il ruolo di Chamberlain e Daladier negli accordi di Monaco del settembre 1938 con Hitler?) degli Stati democratici e purtroppo anche di un “pacifismo” di maniera, presente già allora. E del resto c’era poi stato, nell’agosto 1939, il famigerato Patto Ribbentrop-Molotov (Germania nazista-Unione Sovietica comunista), con la conseguente spartizione della Polonia.

Dal febbraio 2022 in poi, in concomitanza con la aggressione militare russa, ha operato instancabilmente un’opera di disinformazione da parte dell’apparato statale (e non solo) di Putin, che sicuramente ha avuto il suo impatto su ampie porzioni dell’opinione pubblica italiana (nella quale l’influenza putiniana è sciaguratamente la più alta che in tutto il resto dell’Europa). Per quanto mi riguarda, il sostegno all’Ucraina aggredita deve essere, certamente, economico, sociale, umanitario, diplomatico, ma anche militare, perché è giusto impedire che l’azione criminale della Russia possa aver successo, con prevedibili conseguenze non solo per l’Ucraina, ma anche per altri Stati indipendenti ex-sovietici come la Georgia e la Moldavia (i primi segni si sono già manifestati), e anche con possibili contraccolpi in quegli altri Stati della precedente sfera di influenza sovietica, i quali ormai da anni fanno parte dell’Unione europea e della Nato (soprattutto Polonia, Romania, Ungheria e i tre Stati baltici: Lettonia, Lituania ed Estonia).

Non vi è nessuno (o quasi) che non auspichi una soluzione diplomatica di questa guerra, che Putin, dopo averla scatenata, ha preteso che neppure venisse nominata come tale, denunciando al contrario e spudoratamente (come aveva fatto anche il 9 maggio 2023 nel suo discorso a Mosca) una guerra dell’Occidente contro la Russia. Leggi draconiane, con pene altissime di carcere per i dissidenti russi, impediscono a chiunque in Russia di opporsi pubblicamente, salvo riuscire ad abbandonare il territorio nazionale prima di essere arruolati a forza e mandati al fronte.

Nel frattempo la brigata “Wagner” aveva reclutato privatamente, per inviarli a combattere e morire in Ucraina, anche migliaia di criminali detenuti, scarcerati a questo scopo. I drammatici, ma per alcuni aspetti anche tragicomici, eventi di sabato 24 giugno, con la rivolta, poi rientrata, della stessa “Wagner” guidata da Prigozhin, hanno fatto emergere una realtà russa molto diversa da quella sistematicamente propagandata da Putin e dal suo “cerchio magico”.

Gli esiti di tutto questo sono, per ora, totalmente imprevedibili. Sul sostegno anche militare all’Ucraina invasa ci sono, all’interno di quasi tutte le forze politiche italiane (ed anche nelle pagine di questo giornale), opinioni differenti, anche se la posizione dei Governi che si sono succeduti (prima Draghi, ora Meloni) è stata sempre costante, ora con la condivisione anche della maggior parte dei partiti dell’opposizione. Lo stesso sforzo inesauribile, ma finora inascoltato, della Chiesa di papa Francesco, nella solidarietà con “la martoriata Ucraina”, finalizzato ad ottenere una possibile trattativa di pace, è stato anche nel recente passato accompagnato dal riconoscimento – da parte del Segretario di Stato vaticano card. Pietro Parolin – della legittimità della resistenza armata ucraina.

Ma è evidente che il ruolo del Vaticano e della Chiesa si colloca su di un piano diverso da quello politico e militare, come è dimostrato dalla duplice missione, su incarico di papa Francesco, dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), cardinale Matteo Zuppi, prima in Ucraina e ora anche a Mosca, i cui risultati sono per ora indefiniti e certamente non misurabili con i tempi della contingenza politica e diplomatica. Conoscendo la mia vicinanza per tutta la sua vita ad Alexander Langer (a cui ho anche dedicato due libri), spesso mi viene richiesto cosa avrebbe pensato lo stesso Langer di fronte alla tragedia attuale. Ho sempre risposto che non volevo e non potevo certo farlo parlare “post mortem”, a distanza di quasi trent’anni dalla sua scomparsa. Ma ho anche sempre ricordato quale fosse stato il suo giudizio e il suo comportamento di fronte alla guerra nella ex-Jugoslavia, e soprattutto in Bosnia, nella prima metà degli anni 90 del secolo scorso.

Per anni Alexander Langer aveva promosso iniziative di pace e di nonviolenza nella ex-Jugoslavia e, in particolare, in Bosnia. Nel 1991 aveva dato vita alla “Carovana europea della pace”, iniziativa a cui era poi succeduto, dal 1992, il “Verona Forum per la pace e la riconciliazione”. Tuttavia, dopo anni di iniziative nonviolente, e dopo che si era verificata nel maggio 1995 la strage di Tuzla e mentre continuava da oltre tre anni l’assedio serbo di Sarajevo, Langer si era convinto che non si potesse più continuare ad assistere passivamente alla tragedia bosniaca (e con lui ripetutamente Adriano Sofri, che scriveva dalla Sarajevo assediata per l’Unità di allora).

Per questo motivo, anche dopo avermi consultato personalmente (“è una proposta gandhiana”, gli risposi), l’europarlamentare verde Langer il 26 giugno 1995 guidò un’ampia delegazione di europarlamentari per recarsi in Francia, a Cannes, dove si stava svolgendo la riunione dei capi di Stato e di governo europei, presieduta all’epoca da Jacques Chirac (da poco succeduto a Mitterrand). A nome di tutta la delegazione, Langer presentò a Chirac un drammatico appello intitolato “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo” e gli chiese di promuovere un intervento di “polizia internazionale” per porre finalmente fine alla guerra in Bosnia e al lunghissimo assedio di Sarajevo.

Del resto, già il 6 luglio 1993, quasi due anni prima, in una intervista radiofonica, Langer aveva posto esplicitamente l’interrogativo: “Uso della forza militare internazionale nell’ex-Jugoslavia?”. E in conclusione così aveva riflettuto: “La minaccia e l’effettuazione di un intervento militare hanno senso solo se non resteranno l’unico tipo di impegno internazionale: ci sarà bisogno di un forte e molteplice impegno internazionale, a cominciare da un solido e generoso programma di ricostruzione del dialogo e della democrazia”. E ancora: “Ma se si continuasse ad escludere, per le più svariate ragioni, il ricorso alla forza internazionale, si continuerebbe a lasciare libero il campo ai più forti e meglio armati, con il rischio di sterminare i gruppi più deboli, di costituire un precedente pericolosissimo in Europa e di moltiplicare le guerre nell’area”.

Dunque, già nel 1993 la questione dell’intervento militare era stata posta in modo esplicito da Langer. Ma, quando la propose nuovamente a Chirac in occasione del vertice europeo del 1995, la situazione si era ulteriormente aggravata ed era prevedibile un vero e proprio genocidio. Chirac, imbelle, rispose negativamente a Langer e agli altri europarlamentari. Una settimana dopo Langer pose fine volontariamente alla sua vita, il 3 luglio 1995. Ancora una settimana dopo, l’11-12 luglio, i serbo-bosniaci di Mladic, con la connivenza passiva dell’Onu, effettuarono il genocidio di Srebrenica, con oltre 8mila bosniaci trucidati (di cui sono ancora in corso, dopo decenni, le ultime operazioni di riconoscimento).

Se l’appello disperato di Langer fosse stato ascoltato, il genocidio di Srebrenica non ci sarebbe stato. L’intervento militare – di “polizia internazionale”, come l’aveva definito lui – alcuni mesi dopo, in settembre, venne finalmente effettuato e in pochi giorni la guerra finì. Seguirono gli “Accordi di Dayton”, tuttora in vigore, anche se in una situazione sempre molto precaria per i permanenti conflitti etnici. Dunque, l’intervento militare non era contro la pace, ma appunto la premessa per realizzare finalmente un accordo diplomatico di pace.
La “lezione” di Langer – sia pure in un così diverso contesto storico-politico – è ancora di straordinaria attualità, se riferita alla guerra della Russia di Putin contro l’Ucraina.

Langer era sempre stato un “operatore di pace” (non gli piaceva molto la parola “pacifista”, di sapore troppo ideologico) e un “costruttore di ponti”, ma aveva capito – dopo aver tentato tutte le iniziative di nonviolenza già ricordate – che era necessario realizzare anche l’uso legittimo della forza, per porre fine alla guerra. Una “lezione” davvero ancor oggi di drammatica attualità: ieri in Bosnia, oggi in Ucraina.