Le “fredde statistiche” ci dicono che l’occupazione in Italia sta andando bene. Nei dati rilevati dall’Istat, aprile e maggio ci portano la conferma di una “primavera” record. Una crescita che riguarda l’intero primo quadrimestre del 2023 e che continua, seppur rallentata, anche nel mese di maggio. Viaggiando di conserva con la crescita economica, il tasso di occupazione presenta un quadro apparentemente più che positivo. Apparentemente. Perché la brillantezza dei numeri assoluti nasconde dettagli più grigi. Dettagli che suggeriscono dei consistenti interrogativi a una lettura frettolosamente ottimistica.
Il primo e più significativo è stato messo nero su bianco dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle ultime Considerazioni finali del suo mandato, presentate il 31 maggio. “Troppi, non solo tra i giovani, non hanno un’occupazione regolare o, pur avendola, non si vedono riconosciute condizioni contrattuali adeguate. In molti casi – ha spiegato il governatore – il lavoro a termine si associa a condizioni di precarietà molto prolungate: la quota di giovani ancora precaria dopo 5 anni resta al 20%.”
Dunque, sorge spontanea la domanda su come un mercato del lavoro tonico possa produrre un’occupazione di scarsa qualità e lavoro povero. E ciò, nonostante il fatto che gli stessi dati Istat certifichino la grande crescita dei posti di lavoro stabili: 468mila contratti a tempo indeterminato in più nell’ultimo anno, aprile 2023 su aprile 2022. Gli occupati a tempo indeterminato, in Italia, sono quasi 15 milioni e mezzo: un massimo storico. In aprile, inoltre, i disoccupati sono scesi al 7,8% e, rispetto a un anno fa, sono 72mila in meno. Gli inattivi scendono, sul mese precedente, di 25mila unità e sono 383mila meno del 2022.
In assoluto, il tasso di occupazione raggiunge in Italia il 61 per cento, corrispondente a 23 milioni e 446mila lavoratori occupati. Con un problema: gli uomini occupati sono il 69,8 per cento e le donne appena il 52,3. È interessante osservare, oltre l’andamento del primo quadrimestre, anche gli ultimi dati di maggio che riducono ulteriormente il tasso di disoccupazione dal 7,8% di aprile al 7,6%.
Però, ricorda ancora Visco, che “negli ultimi venticinque anni il prodotto per ora lavorata è cresciuto, appena, dello 0,3 per cento all’anno”, cioè, “meno di un terzo della media degli altri Paesi dell’area dell’euro”. E là, dove la produttività è bassa, si annida l’insufficienza delle retribuzioni. Per questo, una crescita dell’occupazione non rappresenta, di per sé, l’avvento del lavoro di qualità. Schematizzando: bassa produttività=bassa qualità del lavoro=basse retribuzioni.
Almeno una qualche risposta ai problemi che affliggono il nostro tessuto produttivo può venire dalla qualità della contrattazione. È di questi giorni una notizia rilevante. Nel contratto dei metalmeccanici, sottoscritto due anni fa, c’è una clausola di salvaguardia che prevede un adeguamento dei minimi retributivi in base all’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato a livello europeo (IPCA) realmente rilevato ogni anno. Nel 2023, per la prima volta, l’indice darà un risultato superiore ai 27 euro medi stabiliti dal contratto, poiché l’inflazione è molto più alta di quella valutata al momento della firma. In base a tale clausola i metalmeccanici riceveranno, per quest’anno, un aumento medio di 123,40 euro mensili. Come si vede, qualità della contrattazione, del lavoro e del salario sono strettamente collegate, così come esiste un legame tra legislazione di sostegno (incentivi per il lavoro stabile e riduzione del cuneo fiscale) e buona contrattazione. Solo così si possono sostenere lavoratori e imprese in un momento di difficile transizione.
Accanto ai dati relativi alla occupazione è opportuno rilevare quelli che riguardano la povertà e le fragilità sociali. Da questo punto di vista risultano molto interessanti i dati elaborati dalla Caritas nel suo recente Report Statistico Nazionale che vuol essere una rappresentazione in “diretta” della situazione del Paese. Si tratta di una importante novità di rilevamento statistico, ma soprattutto umano, riferita al 2022 che viene divulgata a soli sei mesi dal termine del precedente anno solare oggetto dell’indagine. I dati si riferiscono a oltre 250mila persone che lo scorso anno si sono rivolte alla rete della Caritas, con un aumento del 12,5% del numero di assistiti rispetto al 2021, incremento influenzato anche dalla forte crescita di cittadini ucraini accolti dalla Chiesa in Italia.
L’età media di queste persone è di 46 anni, con differenze in base alla cittadinanza: tra gli stranieri si attesta a 40 anni, tra gli italiani sale invece a 53. Alta è la presenza di genitori: due assistiti su tre dichiarano di avere figli, il che conferma lo stato di forte fragilità in cui versano le famiglie con minori. Nel nostro Paese la povertà assoluta, rileva la Caritas, “tende a crescere al diminuire dell’età. Complessivamente si contano 1milione e 400mila bambini poveri”. In molti casi si tratta di una povertà che si tramanda di padre in figlio. Infatti, secondo uno studio della Caritas realizzato nel 2022, “tra le persone che chiedono aiuto quasi il 60% proviene proprio da famiglie che versavano a loro volta in condizioni di fragilità economica”. Così come risulta una forte relazione tra povertà e bassa scolarità. Questa tendenza, certificata dall’ISTAT, evidenzia che la povertà assoluta diminuisce al crescere del titolo di studio: con un diploma di scuola secondaria superiore l’incidenza della povertà è del 3,9%; con una licenza di scuola media si sale all’11%.
Da ultimo, il Rapporto della Caritas mette in luce il legame, oltreché con i livelli di istruzione, anche con la condizione professionale. “A chiedere aiuto sono perlopiù persone che fanno fatica a trovare un lavoro, disoccupati o inoccupati, il 48%, e in seconda istanza occupati che sperimentano comunque condizioni di indigenza, il 22,8%. Quest’ultimo dato”, continua il Rapporto, “non stupisce più di tanto; sono oltre dieci anni infatti che si dibatte sul fenomeno dei working poor e degli in work poverty, lavoratori poveri su base familiare, entrambi particolarmente incisivi nel nostro Paese, più che nel resto d’Europa. In Italia, secondo i dati ISTAT, tra gli operai e assimilati la povertà assoluta supera il 13%, a fronte dell’1,7% registrato nel 2007, alla vigilia dello scoppio della grave crisi economico-finanziaria legata al crollo di Lehman Brothers”.
Quello che si ricava dalla lettura di questi dati è la necessità di uscire, da parte del Governo, da una logica di pura propaganda che si accontenti di una lettura quantitativa del mercato del lavoro. Il prezioso contributo della ricerca della Caritas mette in luce, drammaticamente, gli elementi di fragilità e di povertà crescente del nostro tessuto sociale e produttivo. Queste conoscenze ci servirebbero per meditare sulle scelte recenti del Decreto lavoro appena approvato che diminuiscono le tutele per i più poveri e ripropongono un modello basato sulla discontinuità e sulla occasionalità del lavoro. Forse bisognerebbe andare nella direzione opposta.