Sembra una storia di ordinaria cattiva amministrazione della giustizia. Invece è un po’ diversa, perché la vittima, Andrea Padalino, è un magistrato. Indagato per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio dai colleghi di Torino, poi da quelli di Milano, poi assolto in primo grado. E i pm di Milano, Laura Pedio e Eugenio Fusco che avevano chiesto per lui una condanna a tre anni di carcere, fanno ricorso in appello ma solo per l’abuso, senza degnarsi di spiegare il perché.
Ma arrivano in appello e si ripete la sorpresa del processo Eni. Solo che qui, a rinunciare all’appello e a rendere definitiva la sentenza di assoluzione, non c’è la pg Celestina Gravina, ma la collega Gemma Gualdi. Storia finita? E no, perché Andrea Padalino adesso denuncia tutti alla procura di Brescia per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Proprio ora, quando quei reati stanno per essere abrogati. Non ci credeva, davvero non ci credeva. “Prima, sottovalutavo il danno enorme che si può fare a una persona svolgendo male il nostro lavoro. Quando si vuole dimostrare a tutti i costi la responsabilità di qualcuno che si vuole colpire”.
Non è uno qualsiasi di noi garantisti, a pronunciare queste parole, e non svolge una qualunque professione, il dottor Andrea Paladino, oggi giudice al tribunale civile di Vercelli, ma ieri gip a Milano nell’ultimo squarcio delle inchieste di Mani Pulite, poi pm in Calabria e infine a Torino. E Torino gli fu fatale. Indagato dal procuratore capo di allora Armando Spataro per abuso d’ufficio e corruzione in atti giudiziari, come dicevamo, il fascicolo fu poi trasmesso, non si sa con quanta celerità, per competenza alla procura di Milano. Poi cinque lunghi anni di attesa, anni che non passavano mai e i giornali che imperversavano, perché ogni volta in cui in un’intercettazione qualcuno faceva il nome di Andrea Padalino, la solita manina riversava la notizia direttamente in edicola e nelle tv. Anche prima che fosse indagato. Una vita distrutta.
Oggi il dottor Padalino ha sessantun anni, quando ci fu l’inizio della fine era in corsa per diventare procuratore capo di Alessandria. Domanda ritirata, e carriera finita per un processo dal quale è uscito assolto. Ma qualche superiore ha voluto punirlo facendogli negare la progressione, non per la sua capacità e la sua preparazione, che vengono sempre giudicate eccellenti, ma perché lo scontro con altri magistrati, quelli che lo hanno inquisito, avrebbe arrecato danni alla sua capacità di “equilibrio, indipendenza e imparzialità”. Prima ti bastono e poi ti licenzio perché hai i lividi, insomma. Ora il giudice Padalino non solo ha denunciato tutti, un bel gruppo di pm, o ex, di Torino e Milano per omissione e abuso di atti d’ufficio alla procura della repubblica di Brescia, competente territorialem ma si anche appellato al ministro della giustizia Nordio e al procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato perché intraprendano l’azione disciplinare al Csm per i magistrati in carica.
Non è il caso di Armando Spataro, ormai in pensione, che era pm a Milano negli anni in cui Padalino era gip, ma che poi si ritroverà a essere il suo capo a Torino e che sarà quello che promuoverà per primo l’azione penale nei suoi confronti. Né di colei che gli succedette alla guida della procura di Torino, Annamaria Loreto, che ha terminato la carriera proprio in questi giorni. Di che cosa era sospettato il magistrato? Di aver brigato, con la complicità di un ufficiale di polizia giudiziaria suo collaboratore, per far assegnare a sé alcuni fascicoli di indagine che riguardavano persone da cui avrebbe poi avuto vantaggi. L’elenco potremmo anche citarlo a memoria, tanto sono sempre uguali ed enfatiche le descrizioni che certi giornali danno a queste “ utilità”: cene, viaggi, alberghi, ristoranti eccetera. Singolare però in questo caso è la tipologia del presunto “scambio”, che consisterebbe solo nel farsi assegnare il fascicolo e non nell’aver compiuto qualche attività contraria al dovere d’ufficio.
Per quel che riguarda l’inchiesta, sarà proprio indispensabile elencare tutti i ritardi, le anomalie e i trucchetti che tante volte abbiamo denunciato e che il dottor Padalino non aveva visto prima? Sulla violazione di due articoli del codice di procedura penale si basa l’esposto denuncia presentato, con l’assistenza dell’avvocato Massimo Dinoia (che ha definito “calvario processuale” quello subito dal suo assistito) alla procura di Brescia per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Le accuse sono pesanti. Per quel che riguarda i magistrati di Torino, insieme ai due ex procuratori Spataro e Loreto c’è un gruppo nutrito di pubblici ministeri: Livia Locci, Francesco Pelosi, Paolo Toso, Gianfranco Colace. Avrebbero violato l’articolo 11 del codice di procedure, continuando a indagare su un collega dell’ufficio pur non potendolo fare, per tassativo divieto di legge. Il solo Spataro avrebbe però, secondo la denuncia, violato un’altra importante norma, quell’articolo 358 che impone al pubblico ministero l’obbligo di ricercare anche le prove a favore dell’indagato.
Una regola violata sempre e pressoché da tutti, in realtà. Ne abbiamo avuto un recente esempio durante il processo Eni-Nigeria con le famose dichiarazioni del faccendiere avvocato Pietro Amara. Nel caso del dottor Spataro c’è una questione spinosa che riguarda proprio l’assegnazione dei fascicoli. Perché due suoi aggiunti (Borgna e Caputo) gli avevano inviato due distinte relazioni per affermare che nella gestione delle assegnazioni delle cause tutto si era sempre svolto regolarmente e che nessuna responsabilità aveva il sostituto Padalino. Sarebbero bastate queste testimonianze per sgonfiare l’inchiesta prima ancora che questa fosse trasferita a Milano.
Ma deve esser prevalsa, come troppo spesso capita, l’affezione di chi indaga, per la propria ipotesi accusatoria. Fatto sta che le due relazioni vengono tenute dal procuratore capo in un protocollo riservato e non inviate a Milano nonostante le ripetute sollecitazioni e proteste della difesa del dottor Padalino. E solo l’ultimo giorno prima del pensionamento il procuratore Spataro le consegnerà ai colleghi dell’ufficio di Torino. Sarà in seguito proprio il dottor Borgna, uno dei due estensori della relazione, quando gli verrà affidato il ruolo di facente funzioni al vertice della procura, a rispettare la legge, molto stupito del fatto che quei due documenti fossero ancora a Torino e non davanti al giudice naturale, cioè Milano. Cui finalmente, con ritardo, le carte verranno inviate.
Ma, se Torino piange, Milano non ride. A leggere nella denuncia di Andrea Padalino la parola “inerzia” vengono in mente altre storie, altri personaggi, ancora la deposizione di Amara per la cui divulgazione l’ex pm Piercamillo Davigo è stato condannato a Brescia. E rispunta un altro nome, quello dell’aggiunta Laura Pedio, che insieme al collega Eugenio Fusco era titolare dell’inchiesta su Andrea Padalino ed è oggi accusata da lui di non aver svolto indagini alcuna per mesi e mesi e di essere rimasta “inerte” e passiva, lasciando svolgere l’attività investigativa dal nucleo di polizia giudiziaria che lavorava per la procura di Torino. La verità è, accusa di nuovo l’ex pm, che il procuratore Spataro e i suoi sostituti non si sono mai di fatto spogliati delle indagini su di me.
Hanno continuato a condurle e a riversare poi le notizie nel contenitore milanese. Ma non c’è mai stato un vero scambio collaborativo tra i due uffici, conclude la denuncia, ma solo un flusso da un’unica direzione. In violazione dell’articolo 11 del codice di procedura penale. Anche perché, sostiene ancora, anche i due pm milanesi (che nel frattempo sono diventati aggiunti, osserva con una goccia di veleno) Fusco e Pedio sono stati complici dei colleghi torinesi, nella violazione delle regole sulle competenze che riguardano cause in cui siano coinvolti magistrati. Ma anche per aver ritardato di mesi l’iscrizione nel registro degli indagati di Andrea Padalino. Si sono poi smascherati quando, dopo aver chiesto nel processo di primo grado tre anni di carcere anche per corruzione in atti giudiziari, nei motivi d’appello hanno ripiegato sul solo abuso d’ufficio. Ma, come ha detto l’avvocato Dinoia, è bastato arrivare davanti a un giudice, perché cambiasse tutto. Ma non è ancora finita.