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Cosa è il salario minimo: diritti e tempo liberato

Cosa è il salario minimo: diritti e tempo liberato

È giusto e opportuno provare ad animare una battaglia comune del centrosinistra sul “salario minimo”. Come è doveroso promuovere un’adeguata politica del lavoro, dei lavori, che sia all’altezza dei tempi. E sarebbe ora di superare la dicotomia tra sinistra “lavorista”, volta a promuovere, estendere e tutelare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, e sinistra “post-lavorista”, più attenta e sensibili ai temi dell’ambiente, dei servizi, della qualità della vita e, dunque, del tempo libero.

Già, il tempo libero. Si tratta forse della cerniera, del ponte fra tali “due sinistre”. C’è tempo libero, infatti, in quanto vi sono i tempi di lavoro, e viceversa. E dunque: quali tempi di lavoro? Quale tempo libero? Ancora una volta le donne comuniste ci hanno insegnato tanto, cogliendo ad esempio la distinzione tra un generico e astratto “tempo libero” e il tempo davvero liberato, e soffermandosi, più in generale, sui tempi di vita: di lavoro, certo, di apprendimento, di svago, familiari e così via. E sembravano far loro da pendant le considerazioni di un acuto dirigente dell’Spd come Peter Glotz, il quale sottolineava come occorresse superare il monopolio dei mass-media e delle agenzie di viaggio sulla gestione e sull’organizzazione di tale tempo libero.

Questioni rese oggi ancor più acute dal dominio del web e dei social e dallo stesso dramma pandemico che abbiamo attraversato (si pensi solo al “telelavoro”). Insomma, si tratta di dare una prospettiva di inserimento e di crescita lavorativa alle ragazze e ai ragazzi; una prospettiva, più in generale, di autorealizzazione. E, insieme, si tratta di dare un senso, una direzione, un orientamento al tempo libero.
Storicamente, del resto, il movimento operaio è cresciuto proprio intorno all’esigenza di ridurre l’orario di lavoro e di sottrarre i proletari all’alcol e ad altre forme di degrado individuale e sociale.

Di certo oggi il potere d’acquisto dei salari si è ridotto e urge contrastare tale erosione. Insieme, tuttavia, andrebbe con oculatezza superato lo stesso dogma della riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. I problemi incontrati con le 35 ore settimanali “per legge” da Lionel Jospin e dai cugini d’oltralpe a inizio secolo non dovrebbero scoraggiare la ricerca di differenti e più duttili percorsi ispirati dallo stesso criterio, purché non rappresentino un cavallo di Troia per favorire la precarietà e la conseguente instabilità esistenziale.