Il fenomeno
In America la tortura in carcere è legale: si chiama isolamento
Ogni giorno nelle 4.780 prigioni degli Stati Uniti, lo subiscono in media 122.000 persone. “Una crisi umanitaria”
Esteri - di Valerio Fioravanti
Nessuno tocchi Caino studia da un quarto di secolo il sistema penale statunitense perché lo ritiene interessante: colloca quasi tutte le sue risorse, economiche e umane, nella “repressione”, e pochissime nella prevenzione. È un sistema che tiene in carcere 2 milioni di cittadini, ogni anno arresta 7 milioni di persone (anche solo per poche ore o pochi giorni, ma intanto vengono ‘schedati’ e hanno ‘precedenti’), tiene 2.400 persone nei bracci della morte, e circa 203.000 persone all’ergastolo.
È un sistema che non pone interesse nella “risocializzazione” del cittadino che sbaglia, e preferisce confidare in pene molto lunghe, nella convinzione che così le “mele marce” non creeranno ulteriori danni alla comunità. Ovviamente l’idea che basti “buttare la chiave” per avere una nazione più sicura non è un’esclusiva statunitense, ma esclusiva degli USA è invece la ricchezza di materiali, studi, statistiche sui quali è eventualmente possibile impostare una riflessione basata su dati di fatto, non solo sull’emotività. Ultimo arrivato tra questi approfondimenti è “Calcolando la tortura”, un nuovo, straordinario studio che ci dice che nelle 4.780 prigioni degli Stati Uniti, ogni giorno, in media, ci sono 122.000 persone tenute in isolamento. E prova a convincerci che è una cosa grave.
Solitary Watch (solitarywatch.org) e Unlock the Box (unlocktheboxcampaign.org) sono orgogliose dei dati che sono riuscite a raccogliere, i più completi disponibili a oggi, con la mappatura completa delle carceri per adulti, ma ci avvertono che nelle prossime edizioni proveranno ad aggiungere i 1.323 carceri minorili, i 181 centri per immigrati fermati alla frontiera, le 80 prigioni nei territori indiani, e alcune decine di strutture “minori”, compresi i “civil commitment centers”, strutture ibride dove vengono “curati” malati di mente e piccoli criminali sessuali. Ma intanto, da subito, la direttrice di Solitary Watch, Jean Casella, avverte: “L’uso diffuso dell’isolamento nelle nostre carceri è una crisi umanitaria. Come hanno confermato le Nazioni Unite, si tratta di torture in atto sul suolo statunitense”.
“Questo tipo di informazioni complete e accurate è fondamentale per creare responsabilità (‘accountability’, il termine anglosassone per stabilire chi debba essere ritenuto responsabile di una determinata scelta politica o amministrativa) e apportare cambiamenti”, ha affermato Casella. Jessica Sandoval invece è la direttrice di Unlock the Box: “Abbiamo un numero crescente di prove che dimostrano che l’isolamento provoca danni psicologici, neurologici e fisici duraturi e aumenta drasticamente il tasso di suicidi, e non riesce a ridurre la violenza carceraria, anzi peggiora la sicurezza per tutti. Tenere tante persone in isolamento è una macchia sulla nostra nazione”.
Le due direttrici, insieme, hanno spiegato perché ritengono che contare ognuno che è in isolamento sia importante. “Crediamo che ogni persona in isolamento sia un’anima umana sofferente che, almeno, merita di essere contata. Una di quelle persone era Kalief Browder, che ha sopportato più di due anni di isolamento a Rikers Island mentre era ancora un ragazzo e legalmente innocente (ossia non processato, ndt), e che è morto suicida dopo essere stato (nelle sue stesse parole) “mentalmente sfregiato” da questa esperienza. Un altro era Benjamin Van Zandt, che era già stato in isolamento, dove aveva subito abusi e minacce da parte delle guardie, e che è morto suicida all’età di 21 anni, la prima notte dopo che per punizione gli avevano comminato altri 30 giorni in isolamento. Le loro storie ci ricordano cosa significa il nostro numero in termini umani. Significa che più di 122.000 persone sono detenute in condizioni che costituiscono tortura. Significa che mentre scrivo – e mentre leggi – ognuno di questi individui soffre da solo, essendo esposto a un serio rischio di danni psicologici, neurologici e fisici, oltre che di autolesionismo e suicidio. Assicurarsi che tutti i Kalief, i Ben e gli altri vengano contati è solo un modo per riconoscere e testimoniare la loro esperienza. Raccontare le loro storie, e incoraggiare le persone in isolamento a raccontare le proprie storie è un altro modo. Ma la cosa più importante che possiamo fare per tutti loro è lottare per ridurre il numero di persone in isolamento e continuare a lottare finché l’isolamento non sarà un ricordo del passato e non ci sarà più nessuno da contare.”